E se per cambiare ci servisse qualche informazione in più?
Ricchezza e impatti climatici sono strettamente legati. In un contesto di crisi è necessario ripensare i consumi per evitare il punto di non ritorno.
Torniamo a scrivere sul tema della mitigazione ai cambiamenti climatici e della necessità di sviluppare società più sostenibili, inclusive, circolari, concentrandoci su un’attività alla base della sopravvivenza per tutti gli esseri viventi: mangiare. Il settore della produzione alimentare è infatti uno dei principali responsabili del cambiamento climatico. Si stima che il 25-42% di tutte le emissioni di gas a effetto serra in Europa provenga dalla produzione alimentare. Le sue gravi problematiche sistemiche la rendono quindi un’area su cui è fondamentale intervenire per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) prefissati a livello internazionale.
L’impatto del mastodontico settore agroalimentare ha oggi un raggio di influenza più ampio rispetto al passato, che si estende, oltre che al clima, anche alla perdita di biodiversità, allo stato del suolo, alla qualità dell’acqua. Tutto ciò si traduce in conseguenze negative sul benessere degli esseri umani stessi: basti pensare al peggioramento della qualità dell’acqua che rende usufruibile quella che esce dai nostri rubinetti. In tale contesto, incoraggiare i consumatori ad abbandonare alimenti di origine animale, prodotti utilizzando un’alta intensità di risorse e orientarli verso alternative a base vegetale, è fondamentale per nutrire in modo sostenibile una popolazione globale in crescita, e mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici.
Secondo stime recenti pubblicate sulla rivista accademica NatureFood, l’offerta alimentare mondiale dovrà aumentare fino al 62% rispetto a 10 anni fa per soddisfare la crescente domanda. Tale aumento non sarà sostenibile se portato avanti nel settore degli alimenti di origine animale. Per combattere il cambiamento climatico, un cambiamento nelle scelte alimentari dei consumatori sembra quindi sempre più urgente e necessario. Basti pensare che se i 2 miliardi di persone che attualmente consumano elevate quantità di carne di ruminante limitassero la loro assunzione a 1,5 porzioni a settimana, questo ridurrebbe la domanda di terreni agricoli e renderebbe quasi nulla la necessità di ulteriori deforestazioni (un prerequisito per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5-2°C). È quindi urgente identificare, oltre che politiche all’altezza, strategie di cambiamento del comportamento dei consumatori convenienti e facilmente scalabili.
Il cibo non è tutto uguale in termini di impronta di carbonio. I prodotti di origine animale, per esempio, sono responsabili di una quantità di emissioni di gas a effetto serra molto più elevata di legumi e verdure. Eppure, gli allevamenti intensivi operano ancora a pieno regime e i produttori di carne mantengono una forza contrattuale e politica troppo rilevante. Si riconosce che il potenziale maggiore per frenare l’enorme meccanismo di un’industria dannosa e inefficiente è legato a decisioni prese a livello istituzionale e ad interventi di regolamentazione sulle quantità, sui prezzi o sulle emissioni di carbonio.
Tuttavia, è facile accorgersi quanto i vincoli politici limitino la misura in cui tali strumenti regolamentativi possano essere efficaci nel limitare le emissioni di gas serra. Proprio per questo, sempre più spesso si tende ad adottare un approccio “dal basso” (e cioè dal lato della domanda), e a rivolgere lo sguardo verso i singoli consumatori allo scopo di ridurre la loro impronta di carbonio attraverso migliori scelte di consumo. Sono diventate necessarie soluzioni dal lato della domanda per integrare gli sforzi sul lato dell’offerta. Il meccanismo della domanda e dell’offerta non mente.
Se l’efficacia delle scelte personali di un singolo può sembrare dunque irrilevante (se smetto di mangiare bistecche, il mercato mondiale non ne risentirà di una virgola), il segreto sta anche nella coralità di migliaia, milioni, miliardi di singole azioni. Cresce così la necessità di interventi informativi volti a modificare le abitudini alimentari dei consumatori. Esiste un ramo dell’economia, l’economia comportamentale, che mira infatti a determinare come impiegare al meglio misure comportamentali (“nudges”) nell’ambito di una strategia per spostare le scelte di consumo verso opzioni più sostenibili, dando quindi rilevanza alle nostre scelte “dal basso” e corali. Un approccio attuato in tal senso, incentrato sulla promozione di diete più sostenibili, rappresenterebbe dunque una grande opportunità per affrontare la crisi climatica.
Cosa significa intervento informativo?
In economia comportamentale, uno degli strumenti per avere un impatto sulle scelte delle persone è la diffusione di informazioni per assicurarsi che il consumatore abbia una conoscenza sufficiente e completa per fare delle scelte consapevoli. Ne avevamo parlato in passato: l’economia tradizionale ci dipinge come agenti razionali con disponibilità completa di informazioni per prendere decisioni. Tuttavia, la realtà ci trova spesso miopi e raggirati dai pochi dati resi disponibili e abbelliti a piacimento.
Per quanto riguarda il settore alimentare, sebbene vi sia una crescente consapevolezza dell’impatto delle abitudini alimentari del singolo sul cambiamento climatico, le informazioni sull’impronta di carbonio degli alimenti non sono sempre disponibili per i consumatori, che generalmente ne sottovalutano la portata. Carne e latticini sono generalmente le categorie con la più alta impronta di carbonio, ma anche al loro interno si riscontrano differenze eccezionali.
Grafico. Emissioni di gas a effetto serra per diverse categorie alimentari.
È da questo grafico, e dalle reazioni di sorpresa che esso ha suscitato in varie audience accademiche, che un gruppo di ricerca delle Università di Copenhagen e di San Diego ha svolto un esperimento per stimolare un consumo alimentare più consapevole. Lo scopo del progetto era quello di testare se fornendo informazioni sull’impronta di carbonio relativa a prodotti alimentari specifici si potesse avere un impatto sulle emissioni di carbonio derivanti dal consumo alimentare futuro. Il tutto veniva gestito tramite una app per smartphone (o meglio, due).
Le app, connesse al sistema di pagamento e alla carta fedeltà dei supermercati, che permette di accedere ad un dettagliato resoconto degli acquisti, rendevano disponibili due tipi di informazione per ogni singolo prodotto e/o categoria di prodotti acquistati. Nella prima app, la “lista della spesa” acquistata era seguita semplicemente dal prezzo pagato (informazione neutrale e già nota); nell’altra app, al posto del prezzo, risultavano i chilogrammi di CO2 di cui ogni prodotto è responsabile (affiancato dal numero di chilometri che un’automobile di efficienza energetica media deve percorrere per produrne la stessa quantità giusto per convenire l’informazione in termini più semplici). Dopo aver distribuito le due app a centinaia di persone che avevano acconsentito a partecipare all’esperimento, i ricercatori le hanno invitate ad utilizzare una o l’altra app a piacimento.
Figura. Tre screenshot di entrambe le app che descrivono il livello di dettaglio dell’informazione trasmessa e la similarità tra le due.
I risultati indicano che avendo le informazioni sull’impronta di carbonio, si riducono le emissioni settimanali derivanti dai generi alimentari del 27% nel primo mese di esposizione alle app, con una riduzione addirittura del 45% per quanto riguarda le emissioni provenienti da carne bovina, il gruppo alimentare che ne produce in maggior quantità. Gli effetti dell’esposizione a queste informazioni svaniscono nel lungo periodo, se viene meno anche l’utilizzo dell’app, ma persistono tra coloro che invece continuano ad utilizzarle.
Per tradurre queste percentuali in termini più comprensibili, la riduzione di emissioni carboniche risultata dall’esperimento equivale a spegnere la luce di una stanza per un’intera giornata ogni settimana o al mangiare, ogni settimana, un hamburger vegetale invece che quello di manzo. Insieme alle risposte di un questionario che indicano chiaramente quanto i consumatori, seppur interessati ad agire responsabilmente per il cambiamento climatico, non conoscessero la differenza tra l’impronta di carbonio di diverse categorie di cibo, i risultati di questo esperimento suggeriscono che le informazioni sulle emissioni, in particolare se abbinate a un coinvolgimento con esse, rappresentano una strada promettente per le politiche volte a rendere più sostenibile il consumo di cibo.
È impossibile non concordare sulla necessità di identificare strategie di cambiamento del comportamento individuale che siano facilmente scalabili ad una popolazione in costante crescita. Studi come questo dimostrano quanto questo processo possa essere economico e immediato. Soprattutto, rendono evidente quanto la conoscenza e la consapevolezza siano presupposti fondamentali per il cambiamento.
Add a Comment