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Il bilancio di sostenibilità: una rivoluzione etica o un grande abbaglio?

Il bilancio di sostenibilità: una rivoluzione etica o un grande abbaglio?

La percezione e il calcolo del rischio climatico e ambientale devono entrare nelle realtà aziendali

di Sara Chinaglia

 

È ormai risaputo che nella lotta contro il cambiamento climatico è fondamentale una trasformazione dell’attuale struttura economica lineare verso un’economia circolare a più basso impatto ambientale. L’esigenza di tale cambiamento è reale e non rappresenta la risposta ad una moda passeggera, o un tentativo complottista da parte dei governi di rallentare la crescita delle imprese. Nel report annuale sui rischi globali del Forum Economico Mondiale (non certo il WWF!) del 2020, che identifica tutti i possibili pericoli che potrebbero affliggere l’umanità, per la prima volta nella storia, i primi cinque rischi in termini di probabilità sono legati all’ambiente. Si stima infatti che un valore di circa 44 mila miliardi di euro ogni anno dipenda dalla natura, e sia quindi esposto ai rischi ecologici. Per mettere le cose in prospettiva, 44 mila miliardi sono più della metà del PIL mondiale. I settori più a rischio sono quello agricolo, delle costruzioni e del “food & beverages”. 

 

Il clima che cambia porta dunque con sé una serie di nuove sfide di enorme portata, che pongono sulle spalle delle realtà economiche non pochi problemi. Il settore agricolo, ad esempio, diventerà sempre più vulnerabile agli eventi estremi. La storia ci fornisce già qualche esempio di catastrofici effetti a cascata causati da avvenimenti avversi, quali l’inaspettata e violenta ondata di calore, che ha causato il ban sull’export del grano in Russia nel 2010. Tale evento ha comportato conseguenze tangibili come la caduta del prezzo del grano, che ha influito fortemente sui rapporti commerciali russi col resto del mondo. Inoltre,  diverse imprese della filiera alimentare (ma non solo) risentiranno dell’andamento altalenante e imprevedibile dei prezzi delle commodities (imprevedibilità causata non solo, ma anche da condizioni climatiche sempre più precarie), rischiando quindi di non poter sviluppare un’adeguata strategia di medio-lungo termine. 

 

La portata di una rivoluzione ecologica nel mondo economico come oggi lo conosciamo è quindi enorme e necessaria. Questa necessità di cambiamento si scontra con una realtà economica che ancora fatica ad includere nei suoi meccanismi di pianificazione e rendicontazione logiche legate all’ambiente. Le attuali metriche di misurazione delle performance aziendali, infatti, si basano sul concetto di “ciò che viene misurato viene gestito”. Tale logica ha garantito fino ad oggi efficienza e comparabilità dei dati aziendali tramite sistemi normati e collaudati di criteri contabili (bilancio e conto economico, per intenderci). Tuttavia, la crescente urgenza di considerare dinamiche ambientali si scontra con l’attuale difficoltà nel misurare e dare un “prezzo” ad elementi naturali che di base non sempre possono essere misurati pecuniariamente, e che pertanto non vengono ancora inclusi nella logica di cui sopra. 

 

A pagarne le conseguenze sono, tra le altre, le risorse naturali, sempre più sfruttate. Cresce dunque l’inquinamento in modo costante (si stima che ogni anno l’inquinamento dell’aria causi la morte di 4,5 milioni di persone); la biodiversità è sempre più minacciata da pratiche insostenibili; infine, anche se spesso fingiamo di non vederlo, l’umanità stessa come oggi la concepiamo. È giunto il tempo che le imprese si facciano davvero carico della propria responsabilità ambientale.

 

La direttiva sulla rendicontazione non finanziaria (NFRD)

Per far sì che le imprese cominciassero davvero un percorso di presa di coscienza e trasparenza circa le proprie performance ambientali si è quindi reso necessario un intervento normativo per imporre che la misurazione e comunicazione di quest’ultime fosse legalmente vincolante. L’Unione Europea interviene così con la Direttiva sulla Rendicontazione Non Finanziaria 2014/95/UE (detta anche NFRD, e recepita dalla legislazione italiana con il d.lgs 254/2016) imponendo la comunicazione di informazioni non finanziarie attraverso un report dedicato da parte dei cosiddetti “enti di pubblico interesse”, ossia imprese quotate, banche e compagnie assicurative con più di 500 dipendenti. La Direttiva traccia dei confini non marcati sui contenuti che il report ambientale deve avere al suo interno, causando dunque un problema di comparabilità tra i vari documenti presentati dalle aziende. Tra gli obiettivi citati nella Direttiva, vi è quello di permettere la fruizione di queste informazioni a chiunque ne sia interessato. A tal proposito, le dichiarazioni pubblicate dalle imprese italiane sono raccolte in un database (Osservatorio DNF) pubblico, gratuito e liberamente consultabile.

 

La valutazione aziendale delle performance ambientali e i limiti della NFRD

L’intervento legislativo, sebbene rappresenti un punto di partenza molto importante, non è la soluzione a tutti i problemi relativi alla comunicazione delle performance ambientali.

 

Innanzitutto, l’obbligo della NFRD tralascia le piccole-medie imprese che nel territorio europeo rappresentano il 99% del totale. In Italia, nel 2018, tra le 200 dichiarazioni non finanziarie (DNF) analizzate dall’Osservatorio, solamente 6 imprese hanno redatto una DNF su base volontaria, sintomo che questo tipo di comunicazione è ancora vista come un costo e non come una scelta strategica ed etica.

 

Analizzando le DNF pubblicate nel corso del 2018, emerge quanto la sfera relativa al cambiamento climatico sia ancora secondaria. In media, infatti, è la dimensione sociale ad essere protagonista, con una media di 24 pagine contro le 12 riservate alla sfera ambientale; decisamente poche per imprese considerate di interesse pubblico. La dimensione climatica rappresenta solo l’11% del totale dei report e raccoglie principalmente informazioni di base relative alle emissioni di CO2, consumo di risorse idriche ed energetiche e gestione dei rifiuti. Vengono, quindi, totalmente accantonate ulteriori importanti informazioni relative alla dipendenza da risorse naturali, altri tipi di inquinamento (ad esempio acustico e luminoso), valutazioni sulla vulnerabilità ed esposizione ad eventi climatici estremi. Per riassumere, una quantità e qualità di dati ambientali collegati all’attività economica decisamente scarsa.

 

Un altro elemento di difficoltà è la mancanza di standard e misure di rendicontazione imposti unilateralmente, che lascia spazio ad una pericolosa discrezione sulla scelta dei parametri di misurazione da adottare, con il rischio di trovare DNF totalmente incomparabili tra imprese. Alla luce di questo, considerata anche la mancanza di meccanismi di controllo circa la veridicità delle informazioni condivise, esiste un ampio margine d’azione per le imprese determinate a mettere in atto pratiche di greenwashing. 

 

Esistono comunque delle linee guida che le imprese possono scegliere di adottare. Tra le più utilizzate riconosciamo il GRI e il SASB, associazioni senza scopo di lucro che nascono al fine di supportare le imprese nella rendicontazione sostenibile, fornendo loro delle linee guida.

 

Fortunatamente, nel 2018 la totalità delle società ha scelto di utilizzare gli standard definiti dal GRI (rendendo le DNF sufficientemente uniformi). Tuttavia, queste linee guida propongono diverse alternative sulla quantità e qualità delle informazioni che s’intendono comunicare. L’alternativa “core” permette di comunicare solamente informazioni minime, mentre l’alternativa “comprehensive” ne richiede di più articolate e specifiche riguardo etica aziendale e impatto delle proprie attività nelle dimensioni considerate. Si pensi che ben il 97% delle imprese ha scelto di rendicontare solo informazioni minime.

 

La nuova proposta della Commissione

Proprio da questi aspetti si è mossa la presa di coscienza dei limiti della NFRD, sulla quale la Commissione Europea si è espressa in data 21 aprile 2021 proponendo una direttiva aggiornata: la Corporate Sustainability Reporting Directive.

 

Stando al testo di legge da approvare, le novità che si intendono introdurre riguardano l’ampliamento della platea di imprese obbligate a redigere una DNF. Una volta che il testo di legge verrà approvato, tutte le aziende con più di 500 dipendenti e tutte le aziende quotate (quindi anche le PMI quotate) faranno parte di tale direttiva, portando gli enti coinvolti in UE da circa undicimila a circa quarantanovemila. 

 

Un’altra importante novità è rappresentata dall’introduzione di standard comuni europei di rendicontazione che verranno sviluppati dall’EFRAG (ente europeo che si occupa dei principi contabili a livello internazionale). Questo obiettivo sarà un lavoro necessario ma non facile, poiché si scontrerà da un lato con l’esigenza di mantenere una coerenza con gli ambiziosi obiettivi del Green Deal Europeo, e dall’altro con la necessità di essere omogeneo con gli altri standard globali (GRI, SASB, eccetera). Infine, la Commissione propone di introdurre dei meccanismi di garanzia e controllo della veridicità delle informazioni condivise (come già succede con quelle finanziarie), ma in modo graduale per meglio adeguarsi alle attuali capacità del mercato.

 

Le novità introdotte sono un chiaro segno di un’Europa che non si è dimostrata miope davanti agli evidenti limiti della direttiva ad oggi in vigore. In ogni caso, il recepimento di queste misure, qualora le negoziazioni procedessero senza intoppi, si troverebbe solamente nelle DNF del 2024. I processi naturali, però, non attendono i nostri negoziati. Se da un lato l’Unione Europea è vigile, dall’altro pecca di eccessivo ottimismo: l’auspicio che si legge nella comunicazione, infatti, è che le realtà aziendali non debbano attendere un obbligo di legge per comunicare informazioni ambientali, bensì che questa sia già una pratica diffusa e internalizzata. Ma è davvero così?      

 

L’atteggiamento delle imprese

A differenza di quanto le campagne di marketing possano mostrare, analizzando i dati comunicati dalle imprese solo pochi anni fa, il top management delle società cosiddette di interesse pubblico non ha ancora pienamente internalizzato le dinamiche legate alla sostenibilità: solo il 36% delle imprese che hanno pubblicato la DNF nel 2018 disponeva di un comitato di sostenibilità.

 

E, per chi ancora vuole credere che le società stiano diventando verdi, basti pensare che un’indagine condotta da CONSOB nel 2019 ai membri di Nedcommunity (l’associazione italiana degli amministratori non esecutivi e indipendenti, componenti degli organi di governo e controllo delle imprese) ha dimostrato che gli amministratori non concordano sulla necessità che tematiche legate alla sostenibilità debbano determinare un cambiamento nei modelli di business o delle linee strategiche aziendali. Emerge quindi chiaramente quanto sia fondamentale il lavoro legislativo dell’Unione Europea in un contesto in cui le imprese ancora si rifiutano di internalizzare il problema del cambiamento climatico.

 

Insomma: l’ambiente lo vogliono salvare, ma solo nelle campagne pubblicitarie; per il resto si arrangino gli altri.

 

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