Bioeconomia

La rivoluzione verde della bioeconomia

La rivoluzione verde della bioeconomia

Una bioeconomia sostenibile consentirebbe di diminuire la dipendenza dalle materie prime fossili, abbattendo le emissioni di gas serra nell’atmosfera.

di Fabiola De Simone

Il 3 e il 4 ottobre scorso si è tenuto a Napoli il Forum Internazionale sulla Biotecnologia Industriale e la Bioeconomia (IFIB): solo l’ultimo – in ordine temporale – di una serie di eventi dedicati alla bioeconomia organizzati dal mondo accademico, politico e industriale negli ultimi anni (si pensi, ad esempio, al Global Bioeconomy Summit o al World Bioeconomy Forum). Cresce infatti considerevolmente l’attenzione rivolta a questa macro-area, che sembra spianare la strada verso un nuovo modello economico sostenibile. Oggi, quasi cinquanta Paesi hanno adottato strategie dedicate o almeno in parte legate alla messa in atto della bioeconomia. Tra questi, si annoverano anche l’Unione Europea e l’Italia.

 

Ma che cos’è la bioeconomia?

Considerata da molti come alla base della rivoluzione industriale – quella ‘verde’ – del nostro millennio, la bioeconomia consiste nella produzione e nell’utilizzo innovativo di risorse biologiche rinnovabili (la cosiddetta “biomassa”) per la realizzazione di beni e servizi finali o intermedi. Per biomassa si intende la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e scarti di origine biologica derivanti da animali, piante e microrganismi (come, ad esempio, gli sfalci e le potature provenienti dal verde pubblico e privato) ma anche la parte biodegradabile degli scarti e rifiuti urbani e industriali. Questa frazione biodegradabile viene usata per produrre cibo, materiali ed energia.

 

I risultati? Includono più di quanto potremmo immaginare: dai famosi sacchetti biodegradabili per la spesa ai cerotti prodotti con l’amido della patata, dalle scarpe 100% bio-compostabili fino ai biocarburanti. Forse ancora non ce ne accorgiamo, ma la bioeconomia è già entrata a far parte della nostra vita quotidiana. Un esempio virtuoso tutto italiano è quello dell’azienda Orange Fiber, che ha brevettato e produce tessuti sostenibili per la moda a partire dagli scarti dell’industria del succo di agrumi. In questo modo l’azienda previene ed elimina i costi ambientali e per l’industria del succo di smaltimento dei sottoprodotti (le bucce di arance e simili) trasformandoli in valore aggiunto: filato in questo caso. 

 

La bioeconomia, dunque, abbraccia per definizione tutti i settori che dipendono dalle risorse organiche della terra e del mare: dai più tradizionali settori primari che producono le risorse (l’agricoltura, la pesca, l’acquacoltura e la silvicoltura) a quelli industriali più moderni che le utilizzano e le trasformano (le biotecnologie e le bioraffinerie, i cosiddetti settori ‘bio-based’). Stando alle stime, l’insieme di questi settori in Europa vale circa 2,3 miliardi di euro all’anno di fatturato, con oltre 18 milioni di occupati nel settore (rappresentando circa l’8,2% della forza lavoro europea). In questo contesto, l’Italia si colloca al terzo posto in termini assoluti, dopo Germania e Francia, con un ammontare di fatturato pari a circa 328 miliardi di euro nel 2017 (circa il 10% del valore totale della produzione nazionale) e un totale di 2 milioni di occupati (il 7,7% sul totale dell’economia del nostro Paese).

 

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Orange Fiber (@orangefiberbrand) in data:

 

Bene, cosa c’entra però la bioeconomia con il cambiamento climatico? 

Per molti una bioeconomia circolare e sostenibile, che sfrutti cioè il potenziale dei rifiuti organici evitando gli sprechi e che rispetti la natura limitata delle risorse biologiche, permetterebbe di risolvere il tradizionale conflitto tra crescita economica e salvaguardia degli ecosistemi, riconciliando economia, ambiente e società. 

 

In effetti, l’attuazione di una bioeconomia sostenibile consentirebbe di diminuire la dipendenza dalle materie prime fossili nei settori interessati, abbattendo le emissioni di gas serra nell’atmosfera, in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. L’utilizzo della biomassa per la produzione di bioplastiche e prodotti chimici ad esempio, permette di utilizzare il carbonio “verde”, cioè quello assorbito dalle piante durante la fotosintesi. Questo significa che il carbonio viene “preso in prestito” dall’atmosfera, e poi nuovamente immesso in atmosfera solo alla fine del ciclo di vita del bio-prodotto. Al contrario, i prodotti a base fossile utilizzano il carbonio “nero”, quello immagazzinato precedentemente nel sottosuolo. Questo carbonio è rimasto sotto terra per millenni, e una volta trasformato va ad aggiungere nuova CO2 nell’atmosfera. 

 

Al tempo stesso, il potenziamento dei settori legati alla bioeconomia implicherebbe  investimenti in ricerca e sviluppo, formazione, aumento dei posti di lavoro e maggiore competitività sul mercato, soprattutto nelle aree rurali oggi in declino (prima fonte di biomassa). Ciò consentirebbe di aumentare la resilienza dei lavoratori in queste zone e le opportunità occupazionali ad essi dedicate. Pensiamo ad esempio alla filiera del cardo promossa in Sardegna da Novamont, azienda italiana leader nel settore delle bioplastiche e dei bioprodotti. Il cardo è una specie vegetale che cresce perlopiù su terreni aridi, poco adatti alle colture tradizionali, e non ha bisogno di frequente irrigazione né di fertilizzanti. La sua coltivazione e la valorizzazione dei suoi elementi permette il rilancio delle aree marginali e/o incolte, garantisce un reddito aggiuntivo  agli agricoltori (circa 245€/ha all’anno) e lo sviluppo di nuovi prodotti a basso impatto ambientale (come un mangime non OGM per l’alimentazione animale). 

 

Mitigare il cambiamento climatico è uno dei cinque obiettivi principali identificati nella strategia A Bioeconomy for Europe” (Una Bioeconomia per l’Europa) adottata dalla Commissione Europea nel 2012, che vede nella bioeconomia il caposaldo della crescita sostenibile. Per meglio integrarsi con le priorità europee in tema di economia circolare, energia pulita e politiche industriali, e per far leva ancor di più sull’aspetto della sostenibilità, la strategia è stata poi aggiornata nell’ottobre del 2018. In questo modo si è elaborato un piano d’azione che, tra le altre cose, si propone di: rafforzare i bio-settori, di migliorare le bioeconomie locali in tutta Europa, e di comprenderne i limiti ecologici. La bioeconomia è menzionata inoltre in Horizon 2020, il più grande programma mai realizzato dall’Unione Europea per la ricerca e l’innovazione. In particolare, 3,851 miliardi di euro sono stati destinati complessivamente alle tematiche della bioeconomia sotto Horizon 2020 dal 2014. Ancora, la bioeconomia compare nel secondo pilastro di Horizon Europe, il nuovo programma europeo per la ricerca e l’innovazione proposto dalla Commissione per gli anni 2021-2027.

 

L’Italia

Anche l’Italia rientra tra i Paesi virtuosi dell’Unione in tema di bioeconomia: l’ultima versione della Strategia Italiana per la Bioeconomia, lanciata per la prima volta nel 2017, risale al marzo del 2019. Da attuare insieme a quella per lo sviluppo sostenibile, la strategia per la bioeconomia si presenta come un’opportunità importante per rafforzare il ruolo dell’Italia nella promozione della crescita sostenibile in Europa e nel Mediterraneo. In particolare, con questo documento il nostro Paese si propone di raggiungere un incremento del 15% entro il 2030 dell’attuale performance dei settori legati alla bioeconomia. Questo attraverso un miglioramento della produzione sostenibile e della qualità dei prodotti, un aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo, istruzione, formazione e comunicazione, e una ridefinizione dei rapporti e del coordinamento tra le istituzioni e le politiche regionali, nazionali ed europee. Strumenti finanziari a livello nazionale vanno ricercati nel piano Industria 4.0, aperto anche alle imprese che operano nella bioeconomia.

 

Problematiche e conclusioni 

Insomma, la bioeconomia sembra davvero poter rappresentare parte della soluzione al problema del cambiamento climatico. In realtà però, nonostante la crescente attenzione verso questo tema, il suo potenziale non è stato ancora sbloccato del tutto. I bio-prodotti, ad esempio, non riescono ancora a competere sul mercato con i cugini di origine fossile. Ciò accade probabilmente per due motivi. Innanzitutto, la natura trasversale della bioeconomia fa di essa una materia particolarmente complessa, che presenta specificità diverse in base al settore di riferimento. In secondo luogo, la discussione circa i possibili impatti negativi di un uso poco intelligente delle risorse naturali ne ha ulteriormente rallentato l’attuazione. Infatti, bisogna riconoscere che la bioeconomia non è automaticamente amica dell’ambiente e può avere delle controindicazioni: anche lungo la filiera dei settori bio-based c’è, ad esempio, una percentuale di emissione di gas serra. Inoltre, l’alta richiesta di suolo per la produzione industriale di bio-prodotti può avere conseguenze negative per ambiente e società. 

Ancora molto deve essere fatto in questa direzione, ma la strada sembra quella giusta. In questo contesto, l’Unione Europea si è portata avanti proponendo, nella sua ultima strategia del 2018, di introdurre un sistema di monitoraggio per assicurare lo sviluppo di una bioeconomia circolare e sostenibile.

 

Segui Duegradi su InstagramFacebookTelegramLinkedin e Twitter

Add a Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *