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Bollettino luglio-agosto 2019: Le Cronache del ghiaccio e del fuoco

C’era un tempo in cui, quando pensavamo all’Artico, ci venivano i brividi di freddo. E non avrebbe potuto essere altrimenti, rattrappiti dalle temperature sotto lo zero, immobilizzati dal vento sferzante, abbagliati dalle pianure di ghiaccio davanti ai nostri occhi. Quel tempo è definitivamente scomparso questa estate, sotto le ceneri degli incendi che hanno cambiato per sempre il volto delle regioni artiche.

In Alaska, Siberia, Canada e Groenlandia, ben oltre il Circolo Polare Artico, stanno bruciando milioni di ettari di foreste. In Alaska, il fronte degli incendi ha raggiunto un’estensione di 380km (come fare Roma-Bologna in autostrada); in Siberia, l’area più colpita, sono bruciati tre milioni di ettari. Ed il peggio non sono neanche i miliardi di alberi ridotti in cenere: il vero problema è che i terreni di torba, tipici delle aree umide del Nord, sono pieni di carbone. Il risultato è che, in due mesi, gli incendi hanno rilasciato nell’atmosfera oltre cento milioni di tonnellate di CO2 – la quantità di CO2 emessa dall’intero Belgio in un anno. Dopo tre mesi di incendi, si è innalzata una nuvola di fumo più grande della superficie dell’Unione Europea. 

La ragione di questo casino artico è riassumibile in una frase tanto grottesca quanto reale: fa talmente caldo che né i pompieri né l’irriducibile esercito russo riescono a spegnere gli incendi. Tutto è cominciato nel giugno 2019, il giugno più caldo mai registrato nella storia. E vabbè, a giugno faceva caldo anche prima, il bagno al mare l’ho sempre fatto. Il dramma però è che quest’anno il bagno ve lo sareste potuti fare pure in Groenlandia: nelle zone artiche, dove i cambiamenti climatici sono particolarmente estremi, le temperature dell’estate 2019 sono state dagli 8 ai 10 gradi più alte rispetto alle medie degli ultimi trent’anni del secolo scorso.

Con l’avanzare dell’estate, le cose non sono certo migliorate. Il luglio 2019 è stato il mese più caldo di sempre in Alaska; il mese in cui nelle isole Svalbard sono morte di fame centinaia di renne; il mese in cui la Groenlandia ha perso più ghiaccio di quanto mediamente ne perde in un anno. In altre parole, Luglio 2019 riassume la crisi climatica che affligge i territori artici: radicale aumento delle temperature, perdita di fonti di sostentamento, cambiamento definitivo di un territorio. Un incubo realissimo per le popolazioni indigene che abitano questi luoghi, al punto che gli psicologi cominciano a parlare di disturbi mentali legati alla “sofferenza ecologica”. Pensate come staranno tra qualche anno, invasi da orde di Sud Europei armati di parmigiana di melanzane e voce squillante, alla ricerca di refrigerio nelle acque del nord ormai libere dai ghiacci.

Se l’Artico è il cuore pulsante delle manifestazioni estive della catastrofe climatica, non è che per il resto del mondo sia stata un’estate semplice. Il luglio 2019 è stato definito  “the hottest month ever”, che in inglese potrà pure suonare simpatico ma in italiano ha un significato inequivocabile: è stato il mese più caldo mai registrato su scala mondiale. Ce ne siamo resi conto anche noi grazie ad Yvonne, la suadente eppur fatale ondata di calore che ha investito l’Europa a fine luglio rompendo qualsiasi record precedente, come il Bolt dei tempi migliori. 

In Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Andorra, Polonia e Lussemburgo sono stati raggiunti i picchi di calore più alti mai registrati nel mese di luglio. In Belgio e Germania, invece, sono state registrate le temperature più alte di sempre, rispettivamente 40,6 °C e 41,5°C. L’Olanda ha battuto il proprio record personale, immutato dagli anni ‘40, per ben tre volte in due giorni: una killer combo da 39,3°C – 40,4°C – 41,7 °C. Non è andata meglio nel Regno Unito, dove il nuovo record si è fermato a “soli” 38.7 °C, ma dove si prevede che il clima della capitale, entro trent’anni, diventerà come quello di Barcellona

A Parigi, invece, i milioni di abitanti che ogni giorno vanno a comprare le baguette hanno dovuto per una volta portarle a casa a mano, anziché nell’usuale incavo ascellare, perché i 42,6°C registrati il 28 luglio erano francamente del tutto ingestibili. D’altronde, stiamo parlando di temperature che generalmente vengono registrate a Baghdad. Il record di temperature, però, la Francia lo ha sbriciolato a fine giugno, con i QUARANTASEI gradi registrati a Gallargues-le-Montueux, nel sud del paese. Quel giorno, moltissimi vigneti dell’Occitania sono letteralmente bruciati, senza che nessun fuoco divampasse. Il Ministro della Sanità francese ha commentato con una cosa del tipo “regà, niente panico, però siamo tutti a rischio,” mentre il primo ministro, Édouard Philippe, ha chiosato “dobbiamo aver cura di noi ma soprattutto degli altri”. Un “volemose bene” d’Oltralpe che non nasconde l’impreparazione dei paesi europei di fronte al cambiamento climatico

Perché sì, questa ondata di calore non sarebbe stata così intensa se il clima non stesse cambiando: secondo il Met Office, il centro meteorologico del Regno Unito, l’ondata di calore in Europa  sarebbe stata di 3°C più fredda se non avessimo cominciato a giocare col clima. Ce lo ricorda mestamente anche la condizione sempre più estrema dei ghiacciai alpini: in quei giorni nel rifugio più alto d’Europa, sul Monte Rosa, a 4554 metri, le temperature non sono scese sotto lo zero per cinque giorni. Questo mentre Zermatt, località svizzera alle pendici del ghiacciaio più grande d’Europa, è stata inondata dall’acqua del ghiacciaio del Cervino, scioltosi per le temperature troppo alte. 

Sono successe molte altre cose,, in questa pazza estate. La siccità ha colpito diverse aree del mondo, dallo Zimbabwe alla Polonia, dal New Mexico (USA) all’India: a Chennai, una delle città indiane più colpite, per far fronte alla situazione sono arrivati treni carichi di svariati milioni di metri cubi d’acqua. Per il resto, nulla di rilevante da segnalare: agli abitanti della Florida è stato consigliato di andare a caccia delle migliaia di iguane che ne hanno invaso le coste, a Pescara e Torino sono caduti chicchi di grandine grandi come arance (18 feriti) mentre a Guadalajara (Messico) è semplicemente piovuto ghiaccio, che ha coperto la città di una coperta bianca alta un metro e mezzo.

Sono successe molte altre cose, dicevamo, ma non abbiamo tempo di approfondire, perché nel frattempo ha preso fuoco la più grande foresta del mondo. Fughiamo il campo da incomprensioni: il cambiamento climatico non è la causa dello scoppio di questi incendi, perché per l’Amazzonia non è stata un’estate eccessivamente secca; la stragrande maggioranza di essi sono stati appiccati da esseri umani in carne ed ossa. Problemi di incendi dolosi ce ne sono sempre stati, perché sostituire la foresta con campi produttivi dove allevare bestiame e coltivare mangime fa gola a molti. Lo scorso agosto però abbiamo esagerato con la piromania, scatenando oltre 40mila incendi. 

San Paolo, a diverse centinaia di chilometri di distanza, è stata avvolta da una nuvola di fumo. Diversi stati del Brasile hanno dichiarato lo stato d’emergenza. Sono stati riportati incendi anche nelle aree più remote della foresta, dove vivono le comunità indigene. Tutto questo ha delle conseguenze disastrose sul clima della Terra, perché significa perdere un grande alleato nella lotta al cambiamento climatico: le piante, infatti, assorbono ed immagazzinano il carbonio presente nell’atmosfera, riducendone la concentrazione e diminuendo, così, l’effetto serra. La foresta Amazzonica immagazzina una quantità di CO2 equivalente a 10 anni di emissioni di gas serra. Secondo alcuni climatologi brasiliani, non siamo distanti da un livello di deforestazione dal quale la foresta potrebbe non riprendersi più.

La situazione è tragica ma siamo in ottime mani, possiamo stare sicuri che la situazione sarà gestita al meglio. Certo, i 20 milioni di dollari di aiuti offerti dal G7 non sono tantissimi, ma d’altronde non si può certo chiedere alle sette economie più sviluppate al mondo di dare di più. Così come non si può certo chiedere al presidente degli Stati Uniti di partecipare a riunioni di secondaria importanza, tipo quelle che determinano quanto ossigeno in meno sarà presente nell’aria che respiriamo. 

Per fortuna c’è nientepopodimenoché Jair Bolsonaro a dirigere le operazioni. Fa niente se incolpa le ONG ambientaliste (?!?) per questo inferno di fuoco. Fa niente se è dichiaratamente uno scettico del cambiamento climatico, se ha licenziato il responsabile di uno studio agghiacciante sulla deforestazione dell’Amazzonia che non gli è andato a genio, se ha minacciato di fare di una riserva indigena “la Cancun brasiliana”. Fa niente se rifiuta anche quei quattro spicci offerti dal G7 “neocolonialista” e, in uno slancio diplomatico degno delle scuole elementari, dia della vecchia bacucca a Brigitte Macron, moglie del principale fautore dell’iniziativa. 

In Islanda, a luglio, è stato organizzato un funerale per il primo ghiacciaio islandese ufficialmente scomparso (lo seguiranno in molti nei prossimi anni). Sul luogo della cerimonia è stata posta una targa, intitolata “Lettera al futuro”: “Questo monumento testimonia che sappiamo cosa sta succedendo e cosa è necessario fare. Solo voi saprete se abbiamo agito.” Ad oggi, sappiamo solo che i leader mondiali stentano a fornire delle risposte efficaci. Il nostro impegno, con questo Bollettino mensile, rimane quello di continuare a seguire la cronaca di ghiacciai che svaniscono e fuochi che divampano. Sperando che, un giorno, il titolo di un romanzo fantasy non sia più il modo più efficace per raccontarla

 

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