Cos’hanno in comune la cacca delle balene e il cambiamento climatico?
Secondo uno studio pubblicato recentemente sulla rivista scientifica Nature, il contributo offerto dalle balene agli ecosistemi marini (e al cambiamento climatico) è sottovalutato.
Articolo di Virginia Mattioda
Illustrazione di Dada Goffredo
Infografica di Viola Madau
I cetacei, mammiferi che milioni di anni fa si sono evoluti spostandosi dalla terraferma verso il mare, presentano ad oggi un’estrema varietà di forme e dimensioni. Alcune specie non superano il metro e mezzo di lunghezza, come la focena del Golfo di California (Phocoena sinus); altre invece possono arrivare ad avere dimensioni considerevoli, come la balenottera azzurra (Balaenoptera musculus), il più grande mammifero del pianeta terra.
Anche la loro dieta è notevolmente eterogenea. Si distinguono infatti due sottordini: quello degli odontoceti, ovvero cetacei dotati di denti veri e propri, come i delfini e le orche; e quello dei misticeti, di cui fanno parte le balene, i cui denti sono stati sostituiti dai “fanoni”, lamine di cheratina che fungono da spazzole per filtrare l’acqua e trattenere gli alimenti.
Ma di cosa si nutrono i misticeti?
Principalmente di densi gruppi di zooplancton, minuscoli organismi animali diffusi negli ambienti acquatici (come il krill), e di piccoli pesci che, ingeriti insieme a grandi quantità di acqua, permettono di cacciare facilmente tonnellate di cibo. Nutrirsi, però, richiede loro un notevole dispendio energetico; le balene devono infatti immergersi per raggiungere il krill che di giorno vive più in profondità, aumentare la velocità di nuoto e infine attivare i potenti muscoli che gli permettono di aprire la bocca e ingerire fino a 100 tonnellate di acqua e krill in “un sol boccone”.
Recentemente la rivista Nature ha pubblicato lo studio di un gruppo di ricercatori che ha messo in luce come, il consumo di prede da parte di questi giganti, sia stato finora di gran lunga sottostimato. Nel solo Oceano Meridionale, infatti, pare che le popolazioni di balene che popolavano le acque dell’Antartico prima della grande caccia del XX secolo, fossero in grado di consumare 430 milioni di tonnellate di krill antartico (Euphausia superba) ogni anno. Sarebbe a dire più del doppio della quantità di pesce pescato globalmente oggi dall’uomo.
A questo punto la domanda sorge spontanea: come può un animale che ha un fabbisogno alimentare superiore addirittura a quello richiesto dalla specie dominante sul pianeta terra, avere effetti positivi sull’ecosistema?
Ed ecco che entrano in gioco le loro feci…
Grandi quantità di materia organica ricca in ferro che, venendo rilasciate nelle acque marine più superficiali e irradiate dal sole (zona eufotica), sono in grado di aumentare l’intensità e l’estensione delle fioriture di fitoplancton (forma di vita vegetale microscopica che popola gli ambienti acquatici). In questo modo, il riciclo dei nutrienti presenti nelle loro feci facilita lo svolgimento dei processi di fotosintesi svolti dal fitoplancton, il che ha un impatto positivo non solo sull’ecosistema acquatico stesso ma anche sull’atmosfera.
E stato infatti stimato che i processi di fotosintesi svolti dal fitoplancton siano in grado di sottrarre dall’atmosfera circa il 40% di tutta l’anidride carbonica presente, la quale verrà poi trattenuta e trasporta dal fitoplancton sul fondo dell’oceano una volta terminato il suo ciclo vitale.
La grande caccia e il paradosso del krill
Nonostante l’apporto fondamentale offerto all’ecosistema, bisogna ricordare come, nel corso dei secoli, questi animali siano stati cacciati senza misura da parte dell’uomo, portando numerose specie quasi all’estinzione. In particolare, la balenottera azzurra, la più grande tra i misticeti, ha subito perdite sconvolgenti, che lo studio riporta come una diminuzione dei livelli di consumo di krill del 99% tra l’inizio del 1900 e il 2000.
A questo punto, con la diminuzione drastica del numero di balene, ci si sarebbe aspettati un aumento netto sia delle specie predate come il krill, sia di quelle predatrici concorrenti come uccelli, pesci e altri mammiferi marini, dando così spazio all’ipotesi del “surplus di krill”. Ma ciò che è successo è un evento esattamente opposto, definito come il “paradosso del krill”. Dalla metà del XX secolo, infatti, con la fine della caccia alle balene, le popolazioni di uccelli, pesci predatori e altri mammiferi marini sono rimaste in gran parte stabili o, addirittura, sono diminuite su scala regionale e globale e, inaspettatamente, la biomassa di krill è diminuita di più dell’80%.
Il sostegno agli ecosistemi
Sembrerebbe dunque che le popolazioni di misticeti favoriscano la proliferazione del fitoplancton grazie a nutrienti e microelementi fondamentali presenti nelle loro feci. In questo modo garantiscono fonti alimentari alle popolazioni di krill (zooplancton), i quali si nutrono di fitoplancton. Insomma, più balene significano più cibo per il fitoplancton e dunque maggior assorbimento di CO2 da parte di quest’ultimo.
A questo punto, la spiegazione al paradosso del krill non dovrebbe stupirci più di tanto. Come quasi sempre accade in natura, infatti, la drastica diminuzione di un componente dell’ecosistema innesca un effetto a cascata in grado di influenzare negativamente tutti gli altri componenti dell’ecosistema, e dunque l’ecosistema stesso.
Il valore delle balene nel sostegno alla biodiversità dell’ecosistema marino, nella riduzione dell’anidride carbonica presente in atmosfera e dunque, indirettamente, nella mitigazione al cambiamento climatico, è fondamentale. Occorre quindi considerare che le attività che impattano negativamente su questi animali non soltanto porterebbero alla perdita di mammiferi eccezionali, ma limiterebbero anche i loro servizi ecosistemici.
Ancora una volta nel corso della storia, l’uomo si trova ad avere bisogno delle balene. Stavolta però, fortunatamente per loro, non per il pregiato olio che per secoli ha illuminato le case dei nostri antenati, bensì per l’aiuto che sono in grado di offrire nel limitare gli effetti del cambiamento climatico.
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