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Come il cambiamento climatico influenza l’architettura

Come il cambiamento climatico influenza l’architettura

Tutte le arti, e prima su tutte l’architettura, sono influenzate dalla realtà e quindi, sempre più spesso, dalla crisi climatica. In che modo? 

In copertina: “Interno-esterno”, casette in ceramica realizzate da Fusella, 1977

La crisi climatica è una realtà in cui siamo immersi quotidianamente. L’essere umano non ama i cambiamenti e apprezza lo status quo. Ciononostante, istintivamente, siamo portati a reagire, ad assorbire gli stimoli provenienti dall’ambiente circostante, farli nostri e incorporarli nel nostro modo di vivere, di esprimerci, di lavorare, di produrre, di pensare. Di fronte alla crisi climatica, è inevitabile che non solo gli esperti del settore ne prendano coscienza e reagiscano di conseguenza, ma che tutte le sensibilità ne vengano mosse.

 

Per questo, troviamo interessante sviluppare per un breve riflessione su come discipline diverse, e in particolare le Arti canoniche, abbiano reagito, siano influenzate o stiano cambiando in relazione alla crisi climatica. Ne parleremo, spogliandoci da qualsivoglia presunzione di esperti, in questa miniserie, prendendo in esame un’Arte alla volta e iniziando dall’Architettura.

 

Per quanto intellettuale o esclusivo possiate percepirlo, è innegabile che il mondo dell’architettura si intersechi con la nostra realtà quotidiana. È una delle poche Arti che non dà scampo: ci si esiste all’interno, ci si vive in prima persona, condiziona i propri spostamenti, la propria privacy, il modo di fare esperienza degli eventi, ha un effetto persino sul proprio tempo: basti pensare a quanto avere vicino casa una fermata della metropolitana, o non averla, possa modificare i nostri tempi di percorrenza.

 

Architettare il paesaggio

Insieme all’architettura degli edifici, s’intenda anche quella paesaggistica ed urbanistica: il confine tra ciò che è architettura e ciò che non lo è diventa ancora più labile; sparisce forse solo nei paesaggi selvaggi, nelle aree naturalistiche protette o disabitate. Ma, considerando che il 55% della popolazione mondiale vive in grandi centri abitati e in città metropolitane (e il numero è destinato a salire per tutto il XXI secolo), sembra quasi che ovunque passi l’uomo si crei architettura. Dentro le nostre quattro mura, seduti al tavolo del bar, mentre ci rechiamo a lavoro o quando visitiamo nuovi luoghi, facciamo esperienza in maniera più o meno consapevole dello spazio circostante. Ce ne siamo accorti violentemente durante il lockdown più stringente della primavera passata: un balcone, un albero in cortile, un cortile, una finestra ad est, a sud o per lo meno ad ovest, fanno tutta la differenza del mondo.

 

Fusella, “Interno/Esterno”, scultura ceramica, 1977

 

La crisi climatica ci costringe a ripensare il modo stesso di fare architettura. Quando si tratta di crisi climatica, infatti, al centro della discussione entrano i processi e il tasso di edificazione delle zone urbane, i materiali utilizzati, le tecnologie adottate, la scelta di riconvertire o ristrutturare edifici esistenti rispetto a costruire da zero.

 

Non si dimentichi che, secondo un rapporto del 2019 del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, nel 2018 il settore dell’edilizia e delle costruzioni è stato responsabile del 36% dell’uso finale di energia e del 39% delle emissioni di CO2 legate all’energia. Al fine di soddisfare gli obiettivi stabiliti dall’accordo di Parigi e dalle Nazioni Unite (ONU), l’efficienza energetica degli edifici, ad esempio, dovrebbe essere migliorata del 3% ogni anno, un’ambizione considerevole.

 

Per un’architettura ecologica

Alcuni suggeriscono che il modo per affrontare l’impatto climatico del settore sia attraverso l‘architettura ecologica, ovvero progettare, realizzare, demolire, riciclare e smaltire costruzioni sostenibili. Ciò significa, ad esempio, prestare attenzione al clima locale per risparmiare energia attraverso lo sfruttamento passivo di ventilazione, riscaldamento e illuminazione o, ancora, scegliere materiali che derivino da risorse rinnovabili e non esauribili. L’architettura ecologica sta diventando sempre più popolare e, nella sua declinazione più semplice, introduce degli elementi naturali nelle aree urbane per ridurre la pressione inquinante (tra gli altri, coperture di tetti verdi, pareti interamente ricoperte di vegetazione).

 

Ma è davvero abbastanza? Prendiamo come esempio una centrale elettrica o un inceneritore con una pista da sci sul tetto e una parete da arrampicata sul lato come quella realizzata a Copenhagen dagli architetti dello studio BIG, o il concetto di bosco verticale progettato dallo studio di Stefano Boeri ed esportato in molti paesi del mondo. Sebbene possano rappresentare esempi virtuosi, non rappresentano una rivoluzione sistemica, quanto una caratterizzazione “verde” di un immobile che prima di quel momento non esisteva. È un mercato anche quello dell’Architettura, fatto di clienti, parti sociali, domanda ed offerta. Proprio per questo, la rivoluzione risiede nella volontà da parte dell’industria intera di cercare di accogliere i bisogni della società senza violare i confini ecologici del Pianeta, e questo richiede un cambio di paradigma delle regole del gioco.

 

 

Riqualificare invece di costruire

La vera sfida sta nel commissionare e progettare, insieme a clienti ed investitori, edifici, città e infrastrutture che siano componenti organiche e non dirompenti di un sistema più ampio, autosufficiente e in costante rigenerazione. Preferire la riqualificazione, dove possibile, alla costruzione ex novo; o, ancora, investire su una pianificazione urbana che permetta di creare sinergie tra le diverse funzioni degli edifici ad impatto ambientale minimo (la cosiddetta “città dei quindici minuti”, di cui si è parlato in abbondanza durante il lockdown, può rappresentare un esempio virtuoso).  

 

In questo modo, gli architetti potranno dare un contributo tangibile ad un problema sociale contemporaneo. Come lamenta l’architetto Jacques Herzog in una lettera al collega David Chipperfield, pubblicata sulla rivista Domus, tale contributo attivo su alcune importanti problematiche sociali sembra mancare da parte degli architetti, talvolta impantanati nelle volontà dei clienti privati o tarpati da politiche poco lungimiranti. Herzog aggiunge anche una considerazione sul fatto che nessuno ha davvero un’idea o il pieno controllo su dove e come e cosa si dovrebbe costruire su un’area disabitata e libera. “Chi possiede la terra? Chi prende le decisioni, chi dà il permesso di prenderla e sfruttarla? Chi concede permessi di costruzione in mezzo al nulla?” [t.d.r.] Piuttosto di preoccuparsi del fatto che la densità della popolazione si concentri ad altissimi livelli solo sul 2% della Terra, Herzog esorta a prendere in considerazione la prospettiva contraria: uno sforzo collettivo per fare della natura il fulcro della progettazione architettonica e permettere che il paesaggio si estenda alla città, non viceversa.

 

La vera rivoluzione architettonica sembra quindi ruotare attorno a due concetti: il primo è la circolarità anche nel riutilizzo di edifici preesistenti, il limitare gli sprechi, lo scegliere con cura materiali che non provengano da risorse non rinnovabili o che, perlomeno, non vengano usati se non necessario. Il secondo è quello di collaborare con la natura nell’atto di darle una forma diversa da quella originaria; già oggi esso ci pare non essere una scelta, ma una necessità.

 

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