Il cambiamento climatico è un problema di genere
La crisi climatica non è neutrale, le sue conseguenze amplificano le disuguaglianze sociali preesistenti. Tra queste anche il problema di genere. Solo cambiando il nostro modo di pensare potremo affrontare la sfida climatica.
di Sebastiano Santoro
Nel novembre del 2013, un tifone ha colpito le Filippine distruggendo la città costiera di Taclaban. Il numero di sfollati ha superato i 4 milioni. Negli ultimi anni abbiamo letto molte storie come questa, perché il riscaldamento globale ha aumentato l’intensità di tifoni e altri eventi meteorologici estremi. Ma è meno probabile che abbiamo letto cosa accade dopo questi eventi.
All’indomani del super tifone di Taclaban, con le forze di sicurezza concentrate sul salvataggio delle vittime, donne e ragazze della zona sono diventate bersaglio di aggressioni e traffico a sfondo sessuale. Una ragazza ha detto di essere stata ‘venduta’ come schiava sessuale a molti uomini, alcuni dei quali erano operatori umanitari stranieri. Altri le hanno scattato foto e video. All’epoca la ragazza aveva 13 anni. Come afferma il reportage sul suo caso, “il cambiamento climatico ha creato una nuova generazione di vittime del traffico sessuale”.
La giustizia climatica è anche giustizia di genere
Quello che è successo a Taclaban ci fa intuire che la crisi climatica non è neutrale: se è vero che il cambiamento climatico non fa distinzioni di per sé, è altrettanto vero che gli effetti sui gruppi sociali colpiti non sono tutti uguali. La disparità di genere rende le donne più vulnerabili degli uomini.
“Quando l’ambiente si deteriora, anche la condizione della donna peggiora”, afferma Emma Porio, sociologa dell’Università Ateneo de Manila.
Ma partiamo da alcuni dati. Secondo le Nazioni Unite, le donne dipendono maggiormente dalle risorse naturali minacciate dal cambiamento climatico. In tutto il mondo, le donne rappresentano circa il 43% della forza lavoro in agricoltura. In Asia e Africa, questa percentuale è più alta, spesso superiore al 50%. Un insieme di 130 studi condotti dalla Global Gender and Climate Alliance afferma che in contesti climatici estremi le donne hanno maggiori probabilità di soffrire di insicurezza alimentare rispetto agli uomini.
La mancanza di risorse, poi, è una delle cause delle migrazioni climatiche. Anche in questo caso, i dati delle Nazioni Unite ci dicono che circa l’80% dei migranti climatici sono donne. Sebbene questa stima sia incerta, considerata la difficile definizione di migrante climatico, resta il fatto che le conseguenze negative dei cambiamenti climatici colpiscono di più il sesso femminile.
E la violenza? Che la violenza sessuale aumenti in concomitanza di disastri naturali e altri casi di emergenza umanitaria, come il caso di Taclaban, è chiaro e lo dimostrano studi recenti. Ma l’aumento della temperatura globale potrebbe diventare di per sé una causa diretta di violenza.
Uno studio del 2017 ha messo in luce i legami che esistono tra clima e violenza. I ricercatori hanno analizzato i dati quinquennali di temperatura e violenza in 1.158 distretti sudafricani, e hanno riscontrato che durante i giorni più afosi il numero di crimini violenti è aumentato del 50%. Lo studio conclude che l’esposizione al calore ha una serie di impatti fisiologici che influiscono sui livelli di comfort, stabilità emotiva e senso di benessere: essere in un ambiente caldo e sgradevole crea irritabilità e pensieri aggressivi e riduce le emozioni positive. E ovviamente tutto ciò si ripercuote sulle donne, che durante i giorni più caldi hanno subito livelli significativamente più alti di violenza fisica e sessuale.
Si potrebbe continuare ancora e ancora. Qualche mese fa la dottoressa Clare Wenham, assistente di politica sanitaria globale alla LSE di Londra, ha detto che durante i periodi di crisi “le norme di genere si acutizzano”, e questo non vale solo per i paesi in via di sviluppo: lo abbiamo visto con la pandemia da Covid-19 e i suoi impatti disuguali sui due sessi.
Insomma, la crisi climatica è anche un problema di giustizia, e se vogliamo trovare delle soluzioni non possiamo prescindere dalla questione di genere.
Chi prende le decisioni?
Soluzioni, appunto. Ma chi prende le decisioni in materia climatica? Anche in questo caso, partiamo da alcuni dati. Gli uomini detengono più del 75% dei seggi nei parlamenti nazionali di tutto il mondo. Nel 2015, la leadership mondiale dei ministeri che si occupano di questioni ambientali era per circa l’88% maschile. Il tasso di partecipazione femminile alla commissione della prossima COP26 sarà solo del 15%. Nel complesso, oltre ad essere soggetti più vulnerabili, le donne sono anche escluse dai processi decisionali che riguardano i cambiamenti climatici.
Sebbene le si descriva spesso come vittime, esse sono anche agenti per il cambiamento. Se diamo un rapido sguardo, ci accorgiamo che molti dei leader climatici più influenti sono donne.
Sulla scena internazionale, Christiana Figueres, a capo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, è stata l’artefice dello storico Accordo sul clima di Parigi del 2015, che nel suo preambolo ha sottolineato la necessità di responsabilizzare le donne nel processo decisionale sul clima. Celebrità come Jane Fonda hanno attirato l’attenzione sulla crisi climatica attraverso la disobbedienza civile, ispirata sicuramente dall’attivismo dell’adolescente svedese Greta Thunberg e dal potente movimento Fridays for Future da lei avviato.
Vale lo stesso discorso per coloro che occupano posizione governative. Il primo ministro della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern, ha di recente dichiarato l’emergenza climatica, e sta impegnando il settore pubblico a diventare a impatto zero entro il 2025. Negli Stati Uniti, la congressista Alexandria Ocasio-Cortez è la visionaria dietro il Green New Deal, un ambizioso piano per salvare il paese dall’ingiustizia sociale e dalla minaccia del riscaldamento globale.
Un approccio femminista
Ma il contributo delle donne potrebbe andare ben al di là. Tra i numerosi movimenti di emancipazione femminile nati nel secolo scorso, ce n’è uno che forse potrebbe dare un contributo importante nella lotta ai cambiamenti climatici. Sto parlando dell’ecofemminismo, una corrente nata nel 1974 grazie alla scrittrice francese Françoise d’Eaubonne.
Negli anni il termine ecofemminismo è stato usato per indicare teorie anche molto diverse tra loro. Secondo Bruna Bianchi, docente di studi culturali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, pur nella diversità dei vari approcci, l’interesse delle autrici ecofemministe è quello di confutare i presupposti del pensiero patriarcale (che sono anche quelli della filosofia liberale moderna): cioè i concetti di gerarchia e dualismo.
Il dualismo è una visione del mondo che separa la mente dal corpo, la ragione dall’emozione, l’uomo dalle donne, gli esseri umani dalla natura. Queste dicotomie danno origine a un “altro” che, all’interno di relazioni di potere gerarchizzate, viene demonizzato, discriminato, sfruttato. In questo senso, l’ecofemminismo riconosce un’analogia tra lo sfruttamento della donna e quello della natura e vede le due battaglie come interconnesse.
Nel suo ultimo libro “Tra cura e giustizia”, la filosofa Elena Pulcini sottolinea come il principale responsabile dell’attuale collasso climatico, l’homo aeconomicus, cioè un individuo “autonomo, calcolatore, che persegue in maniera apparentemente razionale i propri interessi”, è frutto del pensiero liberale moderno che si basa sul dualismo tra uomo e natura, ragione ed emozione. Partendo dalla consapevolezza della vulnerabilità di ciascun individuo, l’ecofemminismo cerca di ricomporre queste separazioni, a vantaggio di valori quali l’empatia, la cura, l’inclusione, le relazioni, la conservazione della vita e della natura.
Non è un cambiamento da poco. Si tratterebbe, sostiene la docente Bianchi, di passare da un modo di pensare dominato dalle opposizioni, ad un altro rispettoso della soggettività e dell’individualità; da una politica fondata sulle categorie universalistiche, ad una che abbia a che fare con la pluralità e le differenze.
A questo punto sembrano sempre più appropriate le parole di Mary Robinson, l’ex Alto Commissariato Onu per i diritti umani : “Il cambiamento climatico è un problema generato dagli uomini, ma con una soluzione femminista”.
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