Clima e ingiustizie. Chi compenserà i danni?
La crisi climatica è anche una crisi sociale: chi deve farsi carico dei danni che soprattutto i Paesi più poveri subiscono ingiustamente?
di Alessandro Cattini
in copertina, David Hockney – Arranged Felled Trees (2008)
Gli effetti dei cambiamenti climatici stanno diventando sempre più evidenti: tra l’aumento del rischio di pandemie, la perdita di biodiversità, la scarsità di alcune risorse naturali ed eventi meteorologici estremi che si fanno sempre più frequenti emerge la consapevolezza che la crisi climatica è anche, e non secondariamente, una questione di giustizia sociale. Come tale, essa chiama in causa i rapporti e gli equilibri tra chi ha beneficiato dei frutti della rivoluzione industriale e tecnologica – che negli ultimi due secoli ha causato un vertiginoso incremento delle emissioni di gas serra in atmosfera – e coloro che, pur non avendo goduto di quei benefici, si trovano oggi a fronteggiare in prima linea una delle peggiori crisi ecologiche cui il pianeta abbia mai assistito.
Benefici diseguali, responsabilità differenziate
Per lungo tempo, le risorse del pianeta sono state sfruttate dall’Occidente unicamente a proprio vantaggio, con un eccezionale impatto sulle emissioni cumulative di gas serra a livello globale. Solo negli ultimi decenni, anche i Paesi cosiddetti “in via di sviluppo” hanno potuto iniziare il proprio percorso di modernizzazione, sostenendosi grazie a ingenti quantità di energia proveniente dai combustibili fossili. Inoltre, altri Paesi soprattutto del continente africano si trovano ancora per molti versi in una condizione di arretratezza tale da non poter contribuire in modo significativo alla crisi climatica.
Sebbene gli Accordi di Parigi sul clima esigano che tutti i Paesi del mondo facciano la propria parte per fronteggiare la crisi climatica, dunque, è evidente come da un punto di vista etico non si possano attribuire a queste tre categorie di Paesi le medesime responsabilità. Un conto è aver accumulato benessere grazie a secoli di emissioni, un altro è essere un Paese che solo ora sta uscendo dalla povertà grazie ai combustibili fossili, e un altro ancora è non aver mai goduto di queste opportunità di sviluppo. Ecco perché, nel tentativo di conciliare la giustizia sociale con la necessità di far fronte ai cambiamenti climatici in modo efficace, si incontrano spesso spinosi dilemmi e numerose questioni aperte.
Loss&Damage. Per colpa di chi?
Tanto quanto la CO2 emessa da tutti i Paesi si mescola distribuendosi uniformemente all’interno dell’atmosfera terrestre, allo stesso modo i cambiamenti climatici non rimangono circoscritti ai soli territori dei Paesi emettitori: la natura, infatti, non conosce la precisione del contrappasso dantesco, ma in modo caotico riproduce gli effetti del riscaldamento globale ovunque sul pianeta. Anzi, i Paesi che emettono meno gas serra, che sono anche i meno sviluppati e attrezzati per affrontare questa sfida globale, sono di solito quelli di gran lunga più esposti agli eventi climatici estremi, con il risultato che proprio chi ha meno colpe finisce per subire i peggiori “castighi”.
Come mitigare questa ingiustizia? Chi dovrà farsi carico dei danni da loro subiti? Quali meccanismi di attribuzione delle responsabilità adottare? Si tratta di domande tuttora aperte, alla radice del dibattitto sul cosiddetto “Loss&Damage”. Quest’ultimo è l’insieme delle regole di compensazione e risarcimento per le perdite subite dai Paesi meno sviluppati, le quali dovranno essere implementate per garantire la giustizia ambientale e climatica su tutto il pianeta in modo che a nessuno manchino gli strumenti e le condizioni atte al godimento dei propri diritti fondamentali.
Principi di giustizia distributiva imporrebbero che chi finora ha beneficiato maggiormente della possibilità di emettere gas serra e utilizzare le risorse del pianeta paghi un prezzo più alto per sanare le ferite che lo sviluppo ha arrecato agli ecosistemi e agli altri esseri umani. A questo ragionamento, però, si potrebbe obiettare che contenga in sé una discriminazione nei confronti degli abitanti dei Paesi più avanzati, spesso fra i più virtuosi in termini di transizione ecologica. Nonostante gli sforzi presenti per adottare stili di vita sostenibili, infatti, secondo questa logica le generazioni presenti di questi Paesi si troverebbero a pagare per le colpe commesse dalle generazioni passate, le quali erano (almeno in origine) ignare degli effetti che le emissioni di gas serra avrebbero arrecato al pianeta.
I sogni dei giovani, le grida dei poveri, le colpe dei morti
È questa la piega del dibattito sulla giustizia climatica in cui i principi fondamentali della giustizia sociale e quelli della giustizia intergenerazionale sembrano entrare più in conflitto. Se è vero che abbiamo il dovere di farci carico di eccezionali sforzi di mitigazione proprio per senso di responsabilità verso le generazioni future, perché mai dovremmo accettare di pagare per gli errori dei nostri trisnonni?
Tale sgomento è comprensibile anche perché i sacrifici da compiere, dal punto di vista dei Paesi ricchi, sono molto significativi. Oltre alla riparazione dei danni causati dalle azioni del passato, infatti, a essi toccherebbe anche farsi carico di un surplus di riduzione delle emissioni, in quanto non ci si può aspettare che i Paesi poveri, molto indietro sulla strada dell’innovazione, sostengano gli stessi sforzi di riduzione a beneficio delle generazioni future. Sulla strada dello sviluppo, le loro emissioni in eccesso andranno compensate con interventi più incisivi da parte di chi è già dotato delle tecnologie per un’uscita il più diretta possibile dai combustibili fossili.
Sono questi i motivi per cui, anche se in linea di principio di solito ci troviamo tutti d’accordo con quello che Byron Williston nel suo manuale di etica del cambiamento climatico cita come “PPP” (polluter pays principle = chi inquina paga), cambiamo in fretta opinione quando ci rendiamo conto che, in mancanza dei colpevoli ormai trapassati da decenni (se non da secoli) tale principio si trasforma necessariamente in quello che la filosofia ha denomianto BPP (beneficiary pays principle = chi gode dei benefici paga).
Tutti sulla stessa barca
Possiamo ritenerci non direttamente responsabili per due secoli di industrializzazione sfrenata, emissioni di gas serra e degrado ambientale, e possiamo persino considerare i nostri trisavoli innocenti, in quanto ignari delle implicazioni climatiche dei processi che hanno messo in atto, ma ciò non cambierà la realtà, che ci vede tutti sulla stessa barca in procinto di inabissarsi. Se continuiamo su questa strada, chi per primo, chi per ultimo, tutti finiremo travolti dagli effetti dei cambiamenti climatici. È solo questione di tempo.
Anche dubitando del fatto che godere di certi benefici ci metta nelle condizioni di dover fare qualcosa per chi non ha avuto la nostra stessa fortuna, è molto probabile che pagare ora il prezzo che serve per proteggere i beni comuni e compensare, sanare e prevenire i danni ecologici cui i cambiamenti climatici ci espongono, si riveli un investimento per il futuro. A causa dell’intrinseca interconnessione dei sistemi ecologici, infatti, evitare di pagare significherebbe soltanto ritardare il momento in cui la situazione diventerà del tutto insostenibile e irrisolvibile per chiunque sul pianeta.
Ciò non toglie che far accettare agli elettori di Paesi governati democraticamente questo tipo di sacrifici non sia affatto facile. Ma qui si apre un ulteriore capitolo del rapporto tra filosofia ed ecologia, nel quale giocano un ruolo determinante l’intelligenza collettiva, la spiritualità e il modo in cui la nostra identità è plasmata dal rapporto diretto con la natura. Temi che affronteremo nell’ultimo articolo di questa serie.
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