Come abbiamo scoperto i cambiamenti climatici?
La relazione tra le emissioni di gas serra e i cambiamenti climatici è ormai una certezza scientifica. Ma non è sempre stato così: la consapevolezza della nostra capacità di modificare il clima della terra è relativamente recente.
“L’influsso umano sul sistema climatico è evidente e le recenti emissioni antropogeniche di gas a effetto serra sono le più alte della storia. I recenti cambiamenti climatici hanno avuto impatti diffusi sull’uomo e sui sistemi naturali.”
Comincia così l’ultimo Rapporto dell’IPCC, il forum scientifico intergovernativo che raccoglie le evidenze dei cambiamenti climatici per raggiungere una posizione condivisa a livello internazionale. Era il 2014, e la relazione tra le emissioni di gas serra e i cambiamenti climatici era ormai una certezza scientifica. Ma non è sempre stato così: la consapevolezza della nostra capacità di modificare il clima della terra è relativamente recente.
Le origini: la climatologia prima della guerra
All’inizio neanche sapevamo che esistesse un’atmosfera, né eravamo consapevoli del ruolo che essa ricopriva nel rendere abitabile il nostro pianeta. Il primo a formulare delle ipotesi fu il filosofo naturalista francese Joseph Fourier, negli anni ‘20 dell’Ottocento. Fourier si domandò come mai la Terra, che a quella distanza dal Sole avrebbe dovuto essere ben più fredda, potesse avere delle temperature tali da ospitare la vita. Fece diverse ipotesi, tra cui anche quella che l’atmosfera terrestre riuscisse, per ragioni ignote, ad intrappolare una porzione delle radiazioni solari, aumentando così la propria temperatura. Insomma, l’atmosfera funzionava pressappoco “come un vetro che copre una serra”. Fu così che scoprimmo l’effetto serra.
Il passaggio successivo fu quello di capire come facesse l’atmosfera a funzionare come una serra. Fu un fisico inglese, John Tyndall, a scoprire che alcuni tra i gas presenti nella nostra atmosfera (il vapore acqueo, il metano e soprattutto l’anidride carbonica) erano in grado di assorbire le radiazioni solari, riscaldando atmosfera e superficie terrestre. Era il 1859. Tuttavia, ci volle ancora qualche decennio prima di capire a fondo la relazione fondamentale tra anidride carbonica e clima. A riuscirci fu un baffuto chimico svedese, Svante Arrhenius, che nel 1896 dimostrò che la temperatura globale cambia in funzione dell’aumento dei livelli di CO2. Ancora non esistevano strumenti in grado di misurare quanta anidride carbonica ci fosse nell’atmosfera terrestre, ma Arrhenius stimò che, se i livelli fossero raddoppiati, la temperatura terrestre sarebbe aumentata di circa 5.7°C.
Non che ci fosse da preoccuparsi: Arrhenius era convinto che né l’uomo, né tantomeno altri esseri viventi, potessero immettere una tale quantità di anidride carbonica nell’atmosfera. Sarebbe stato smentito, prima che dalle schiaccianti evidenze dei giorni nostri, già negli anni ‘20 del Novecento, dal geochimico russo Vladimir Vernadskij. Studiando il ciclo del carbonio, Vernadskij si rese conto che piante ed animali hanno un ruolo nel determinare i livelli di gas presenti nell’atmosfera, ed avevano quindi un ruolo nella Storia climatica della Terra. Perché di Storia ormai si parlava: negli stessi anni, il matematico serbo Milankovic era riuscito a provare il verificarsi di cambiamenti climatici terrestri millenari a causa delle oscillazioni dell’orbita terrestre.
Ricapitolando: sull’orlo della Seconda Guerra Mondiale avevamo già ipotizzato (e in buona parte dimostrato) che il clima della Terra potesse variare, che fosse influenzato dalla concentrazione nell’atmosfera di anidride carbonica ed altri gas e che questi, a loro volta, dipendessero anche dalle attività degli esseri viventi (e quindi anche degli umani). Restava da capire se gli umani fossero effettivamente in grado di causare stravolgimenti considerevoli. La risposta non avrebbe tardato ad arrivare.
La grande accelerazione tecnologica: gli anni del Dopoguerra
Gli anni del Dopoguerra segnarono un punto di svolta per le scienze climatiche. Lo sviluppo tecnologico, che in quegli anni contraddistinse ogni settore delle nostre società, favorì la capacità di raccogliere dati sempre più accurati sul clima e l’atmosfera. Nel 1958 due scienziati americani, Roger Revelle e Charles Keeling, inaugurarono alle Hawaii, lontano dai fumi delle città, la prima stazione realmente affidabile per il rilevamento di anidride carbonica. E solo due anni dopo furono in grado di dimostrare quello che a noi oggi pare scontato: la concentrazione di CO2 nell’atmosfera stava aumentando.
A cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60, gli scienziati climatici cominciarono a poter fare affidamento su una serie di straordinarie innovazioni tecnologiche. Grazie al carotaggio dei ghiacci dei poli, e alle bolle d’aria che vi erano intrappolate da millenni, poterono raccogliere informazioni sul clima del passato. Grazie ai primi satelliti, poterono monitorare i cambiamenti della Terra dallo spazio. Grazie ai primi, rudimentali computer, iniziarono a sviluppare i primi modelli climatici. Nel 1967 Manabe e Wetherland, due climatologi dell’Università di Princeton, misero a punto un modello che confermò, seppur correggendone i calcoli, le ipotesi di Arrhenius: ad un raddoppio dei livelli di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera corrisponde un aumento di circa 2°C di temperatura. Alla fine degli anni ‘60, la comunità scientifica aveva di fatto dimostrato l’esistenza del surriscaldamento globale. Il passo successivo fu trasformarlo in una questione politica.
Una questione politica: dagli anni ‘60 ad oggi
Furono gli americani i primi a portare il surriscaldamento dell’atmosfera nel dibattito politico. Già nel 1965, il Comitato consultivo scientifico del Presidente USA aveva pubblicato “Restoring the Quality of Our Environment,” un report che avvertiva dei potenziali effetti negativi delle emissioni dei combustibili fossili sui livelli di CO2 nell’atmosfera. Nel 1968, uno studio finanziato dall’American Petroleum Institute (e questo fa davvero sorridere) metteva in guardia dagli effetti distruttivi generati da un aumento delle temperature (già dato per certo entro il 2000), come lo scioglimento della calotta Antartica e l’innalzamento del livello del mare. Nel 1972 usciva invece “I limiti dello Sviluppo”, uno dei documenti fondanti della causa ecologista, nel quale si parlava già apertamente di cambiamenti climatici antropogenici.
Nel 1979, la Conferenza Mondiale sul Clima, organizzata dall’Organizzazione Mondiale di Meteorologia (OMM), dichiarò “plausibile” che “un aumento di anidride carbonica nell’atmosfera possa contribuire ad un riscaldamento graduale dell’atmosfera […] e che alcuni effetti […] possano già essere visibili entro la fine del secolo, e diventare significativi prima la metà del prossimo secolo”. Alla fine degli anni ‘70, supportata da un sempre più ampio consenso scientifico, la questione climatica era pronta ad uscire definitivamente dal circolo della comunità scientifica per diventare una questione politica internazionale.
Un certo impegno ambientalista aveva già cominciato ad affermarsi nello scenario politico già negli anni ‘70, soprattutto la Conferenza di Stoccolma. Ma per i cambiamenti climatici si sarebbe dovuto aspettare fino al 1992 quando, nell’ambito della Summit della Terra di Rio (la prima conferenza mondiale di Capi di Stato sull’ambiente) fu firmata la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, o UNFCCC. L’obiettivo della Convenzione è semplice: ridurre le emissioni di gas serra per fermare i cambiamenti climatici.
Per guidare il dibattito fu istituito un rapporto scientifico a cura di un gruppo di scienziati provenienti da tutto il mondo: il Gruppo Intergovernativo di esperti sui Cambiamenti Climatici, o IPCC. Creato nel 1988, l’IPCC ha l’obiettivo di raccogliere le conoscenze scientifiche sui cambiamenti climatici e formulare raccomandazioni su come risolvere le loro conseguenze a livello naturale, economico e sociale. Dalla sua fondazione, l’IPCC ha diffuso cinque rapporti (1990, 1995, 2001, 2007 e 2014) che, raccogliendo l’immenso sapere scientifico che va accumulandosi negli anni, asserisce con sempre più insistenza l’esistenza dei cambiamenti climatici e la loro relazione con le emissioni antropogeniche di gas serra.
Il sugo della storia
La storia della scienza del clima è innanzitutto una storia straordinaria di cooperazione umana. Solo in questo articolo, ne abbiamo tratteggiato il percorso grazie al contributo di francesi, serbi, americani, svedesi, inglesi e giapponesi. L’IPCC è la continuazione ed il miglioramento di questo percorso, grazie al quale siamo in grado di essere consapevoli dell’entità dei cambiamenti climatici e dei rischi che comporta. Ne abbiamo assoluto bisogno per continuare a scoprire quello che ancora non conosciamo. Di questi tempi, è importante non darlo per scontato.
Il fatto che ci siano ancora delle cose da capire non significa – ed è bene ricordarlo – che lo sforzo collettivo della scienza non abbia già prodotto evidenze schiaccianti. Quando Fourier immaginava per la prima volta l’effetto serra, all’inizio dell’Ottocento, la concentrazione di CO2 nell’atmosfera era attorno ai 280 ppm, e l’uomo ne immetteva nell’atmosfera poco più di 3 milioni di tonnellate l’anno. Quando Revelle e Keeling misurarono per la prima volta i livelli di anidride carbonica, nel 1958, la concentrazione di CO2 nell’atmosfera era di 315 ppm, e l’uomo emetteva già circa 2500 milioni di tonnellate di carbonio l’anno. Mentre scriviamo questo articolo, nell’atmosfera danzano 413,9 ppm di CO2, e l’uomo emette circa 9500 milioni di tonnellate di carbonio, nonostante la pandemia.
La temperatura media globale è di 1.1°C superiore di quella dei tempi di Fourier. E difficilmente, dopo aver letto questo articolo, potranno convincervi che non lo sapevamo.
Dove non indicato diversamente, la fonte dei dati è “La Grande Accelerazione: una storia ambientale dell’Antropocene dopo il 1945”, di J.R. McNeill e Peter Engelke (Einaudi, 2019).
Immagine di copertina: 1683-84 Thomas Wyke – Frost Fair on the River Thames near the Temple.
La consapevolezza ormai è nel patrimonio culturale della maggior parte degli umani. Ciò che manca è un governo mondiale di tale emergenza ambientale che se non superata ci porterà direttamente all’estinzione anticipata come specie.