COP25: L’occasione mancata
La “COP dell’ambizione” si è rivelata un fallimento
Domenica 15 Dicembre si è conclusa la COP25, ovvero la venticinquesima edizione delle negoziazioni internazionali sul clima. Iniziata il 2 Dicembre, con i suoi 13 giorni di lavori (quasi) ininterrotti la COP25 è passata alla storia come la COP più lunga di sempre. La Conferenza, che si sarebbe dovuta concludere la sera di venerdì 13, è stata prolungata oltremodo a causa della difficoltà, da parte dei delegati, di trovare un accordo su numerosi aspetti tecnici legati all’implementazione dell’Accodo di Parigi.
Nonostante i due giorni extra, i risultati sono stati piuttosto deludenti. Quella che era stata definita la “COP dell’ambizione” si è rivelata un fallimento. Le decisioni e gli accordi raggiunti sono stati ben pochi, e di certo non sufficientemente ambiziosi. I testi legali redatti alla fine della conferenza mancano di posizioni forti e incoraggiamenti e sono stati pochissimi i Paesi a presentare nuovi e più lungimiranti obiettivi di mitigazione per i prossimi anni.
Un inizio travagliato
I mesi che hanno preceduto la COP sono stati ricchi di colpi di scena e poco promettenti. La posizione della COP25, che inizialmente sarebbe dovuta essere in Brasile , è stata modificata diverse volte. Dopo la rinuncia del presidente brasiliano Bolsonaro, noto per le sue posizioni negazioniste, la palla è passata in campo cileno. A causa delle proteste scoppiate a Santiago nell’Ottobre 2019, tuttavia, il presidente del Cile Piñera si è visto costretto a dover rinunciare all’evento – a solo un mese dall’effettivo inizio delle negoziazioni. Il governo Spagnolo, prontamente, si è fatto avanti e, con l’aiuto del Cile e del Segretariato UNFCCC, è riuscito a mettere in piedi in tempi record un evento da 27’000 partecipanti, ribattezzato “COP25 Chile Madrid”.
Durante la sessione plenaria di apertura, il Presidente della COP Carolina Schmidt (Cile) ha annunciato con enfasi e speranza che la Conferenza avrebbe dovuto “cambiare il corso dell’azione e dell’ambizione per il clima“. Pochi minuti dopo, il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, ha chiesto ai presenti: “Vogliamo davvero essere ricordati come la generazione che ha nascosto la testa nella sabbia?“.
Nonostante nessuno si aspettasse grandi miracoli da questa Conferenza, il morale sembrava quindi essere alto; l’illusione è durata poco.
La mancata ambizione
In molti speravano che questa COP avrebbe potuto finalmente risvegliare gli animi dei grandi emettitori, delle nazioni responsabili della maggior parte del cambiamento climatico, convincendo a presentare obiettivi ben più ambiziosi di quelli preparati sinora. Tuttavia, nonostante ci siano stati timidi annunci positivi da parte, ad esempio, dell’Unione Europea e della Danimarca, altri grandi emettitori (Cina e Stati Uniti in primis) non si sono ancora impegnati a migliorare i loro obiettivi di riduzione delle emissioni.
Solamente 80 Paesi, per la maggior parte in via di sviluppo e in tutto responsabili di poco più del 10% delle emissioni globali di CO2, hanno annunciato l’intenzione di rendere più ambiziosi i propri impegni nazionali di mitigazione. Nonostante le pressioni di molti paesi, tra cui le piccole Isole-stato, alcuni paesi dell’America Latina e dell’UE, le decisioni della COP non riescono a fornire un chiaro segnale di intenti e slancio collettivo a favore di maggiori sforzi di mitigazione globale. Come tale, questa è più che un’opportunità persa: è una battuta d’arresto per gli impegni internazionali contro il cambiamento climatico. Il mondo si trova ora di fronte alla sfida di far avanzare l’azione per il clima in una miriade di modi diversi e solo vagamente coordinati, a diversi livelli, da attori diversi e in coalizioni con diverse di volontà, a seconda della questione.
Almeno per il momento, le dinamiche politiche internazionali e nazionali stanno mettendo a dura prova la capacità di raggiungere un’azione globale efficace e coordinata per contrastare il cambiamento climatico. Il successo dell’Accordo di Parigi dipende fondamentalmente dall’azione congiunta per il clima, dal supporto per il clima, della trasparenza e dal rafforzamento della fiducia, portando nel tempo a un costante aumento delle ambizioni. Tutto ciò, quest’anno, è mancato.
[Per saperne di più sulla storia delle negoziazioni: “Breve guida alle negoziazioni sul clima”]
Le negoziazioni tecniche
Le negoziazioni tecniche avvenute durante la prima settimana della COP sono state altrettanto deludenti. Nella maggior parte dei casi non si è riuscito a trovare un accordo sui dettagli tecnici riguardanti le regole da seguire per raccogliere e riportare informazioni sui progressi nazionali verso il raggiungimento degli NDC. Dopo aver portato le discussioni al limite, i Paesi si sono ritrovati a dover applicare la “Regola 16” dell’UNFCCC: questa regola fa carta straccia di ’ quanto discusso durante la COP25 e rimanda le discussioni alle sessioni di Giugno 2020, come se, in pratica, non si fosse parlato di nulla.
Fonte principale di disputa sarebbero stati anche i problemi legati alla finanza climatica: i Paesi in via di sviluppo chiedono infatti a gran voce che quelli sviluppati si impegnino ad aumentare gli aiuti finanziari in loro favore. Ad oggi, tuttavia, l’obiettivo fissato nel 2012 di riuscire a mobilitare 100 miliardi all’anno in finanza climatica per i Paesi in via di sviluppo non è ancora stato raggiunto, e numerosissimi Stati –responsabili di una piccolissima percentuale delle emissioni globali di CO2—si trovano a dover affrontare catastrofi naturali che stanno mettendo le loro popolazioni in ginocchio.
Uno degli obiettivi chiave della COP25, inoltre, era quello di raggiungere un accordo sull’attuazione dell’Articolo 6 (i mercati internazionali del carbonio) dell’Accordo di Parigi, essenziale per ridurre i costi del raggiungimento degli obiettivi di mitigazione. Inizialmente questo problema sarebbe dovuto essere stato risolto alla COP24, nel 2018; nonostante intense trattative, nemmeno alla COP25 si è riusciti a trovare un compromesso. Le tematiche di dibattito rimangono sempre le stesse, e i Paesi faticano a scendere a patti. Le negoziazioni riprenderanno nel 2020, e nel frattempo un gruppo ristretto di Paesi (tra cui l’Italia), guidati dalla Costa Rica, hanno sottoscritto i “Principi di San José”, una sorta di regole informali per l’implementazione dei mercati di carbonio tra i Paesi firmatari. Questi principi sono rigorosi ed ambiziosi e, idealmente, avrebbero dovuto essere inclusi nelle regole dell’Articolo 6.
Un finale che lascia l’amaro in bocca
Il direttore esecutivo di Greenpeace, Jennifer Morgan, ha liquidato brutalmente la Conferenza: “nei 25 anni in cui sono stata in ogni COP, non ho mai visto un divario più grande tra l’interno e l’esterno”, riferendosi all’evidente differenza tra le richieste dei cittadini – che in centinaia di migliaia hanno protestato ogni giorno di fronte alla sede dell’evento per chiedere azioni più urgenti—e i lenti ed impenetrabili processi di negoziazione che si svolgevano all’interno delle numerose sale. Molto delusi i giovani, le organizzazioni non-governative, e chiunque altro sperasse in un cambiamento positivo per riuscire a contrastare il cambiamento climatico.
Nonostante le speranze createsi negli ultimi mesi, la COP25 si è rivelata, infine, un nulla di fatto. Come ricorda l’IPCC, la finestra di tempo che ci rimane per riuscire a limitare l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5°C si sta chiudendo velocemente. È imperativo che i Paesi riescano a mettere da parte interessi nazionali per riuscire a mettere insieme la forza e la volontà necessaria per fermare la crisi globale più difficile che l’umanità abbia dovuto affrontare. Per ora, i soli a premere per una risposta più ambiziosa sembrerebbero essere i piccoli stati che soffrono (già oggi e duramente) le prime catastrofiche conseguenze del cambiamento climatico.
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**Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione di altre organizzazioni ad essa collegate**
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