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Un immaginario per guardare oltre la crisi climatica

Un immaginario per guardare oltre la crisi climatica

Per superare l’angoscia che blocca l’azione collettiva per il clima serve un nuovo slancio immaginativo.

 

di Alessandro Cattini

Ci siamo ormai lasciati alle spalle il 2020, un anno da non ripetere. Eppure non sembra facile scrollarsi di dosso la sensazione che il 2021 e gli anni a venire possano trasformarsi nella sessione di binge watching di una serie di eventi di cui potrebbe essersi conclusa soltanto la “prima stagione”. 

 

Un clima di preoccupazione e pessimismo

Già prima della pandemia, diversi studi hanno messo in luce la diffusione di una crescente preoccupazione per il futuro, specialmente fra i cittadini dei Paesi più sviluppati. Nel 2018, per esempio, il 56% degli intervistati in un sondaggio del Pew Research Center, condotto in 18 di questi Paesi, sosteneva che le giovani generazioni dovranno fare i conti con maggiori difficoltà finanziarie rispetto a quelle affrontate dai loro genitori.  

 

I cambiamenti climatici hanno una grande influenza sulle emozioni con cui ci si rivolge al futuro. Nel 2015, il Low-carbon Lifestyles and Behavioural Spillover project ha mostrato che oltre l’80% della popolazione di ciascuno di 6 su 7 diversi Paesi campione (Regno Unito, Sud Africa, Polonia, India, Danimarca, Cina e Brasile) è afflitto da qualche forma di preoccupazione per il futuro dovuta ai cambiamenti climatici. Climate Outreach riferisce che spesso, di fronte a questo problema, la reazione delle persone è quella di spaventarsi e “non sapere che cosa fare”. 

 

Allarme e preoccupazione fluiscono anche al di là dell’Atlantico, come testimoniano i monitoraggi eseguiti sulla società americana dai ricercatori dell’Università di Yale. Tra il 2015 e il 2020 il numero di cittadini statunitensi “allarmati” (alarmed) per via dei cambiamenti climatici è più che raddoppiato. Se vi si aggiungono poi anche coloro che si autodefiniscono “preoccupati” (concerned), la percentuale sale al di sopra del 50% della popolazione. Queste ricerche ribadiscono, inoltre, che l’emozione più comune fra i cittadini americani è la sensazione di impotenza di fronte alla crisi climatica

 

Stiamo perdendo l’immaginazione sociale

Questi sondaggi sembrano suffragare la percezione che l’umanità sia sempre meno in grado di figurarsi un futuro positivo. Alla radice di questo fenomeno, Geoff Mulgan, professore di Collective Intelligence, Public Policy and Social Innovation presso lo University College London individua tre elementi chiave: la perdita di fiducia nel progresso e nelle grandi narrazioni, il declino delle nostre facoltà immaginative e il rallentamento dell’innovazione sociale.

 

La sfiducia nel progresso spiegherebbe soprattutto perché l’arte e il cinema non sono affatto a corto di idee quando si tratta di rappresentare distopie e futuri apocalittici. Per figurarsi delle catastrofi non è necessario inventare nulla di radicalmente nuovo, ma è sufficiente portare alle estreme conseguenze molti dei “trend” già in azione nella società contemporanea.

 

A questo si aggiunge l’incessante deterioramento della capacità di immaginare scenari completamente nuovi. Lo dimostra per esempio un’analisi condotta negli Stati Uniti nel 2011, sui dati del Torrance Test of Creative Thinking raccolti a partire dal 1966. Dagli anni Novanta, gli indici di originalità e creatività degli americani di tutte le età sono oscillati tra immobilismo e declino, nonostante il costante incremento del quoziente di intelligenza della popolazione. Questo crollo dello slancio immaginativo sembra particolarmente marcato soprattutto nei bambini al di sotto della terza elementare. 

 

Secondo Mulgan, è possibile che la colpa sia degli stili di vita sempre più frenetici cui siamo sottoposti durante tutto l’arco della vita; del saccheggio della nostra attenzione da parte degli algoritmi che governano Internet; della cultura individualista; dello smarrimento dovuto alla complessità del mondo globalizzato; della delusione per il fallimento delle grandi utopie. Questi fenomeni ci stanno derubando di due ingredienti essenziali per coltivare una sana immaginazione e una fiorente creatività: la curiosità di un confronto aperto e la libera ricombinazione fra idee diverse.

 

Ed è proprio quest’ultima la causa principale del rallentamento che affligge i processi di innovazione, specialmente in ambito sociale e scientifico. L’altissima (e costosissima) specializzazione richiesta per eccellere in tutti i campi si ripercuote negativamente, infatti, sulla reciproca fertilizzazione fra le discipline, senza la quale la produttività e la varietà della ricerca continuano a impoverirsi, esigendo sempre maggiori investimenti che però si rivelano ogni volta meno redditizi.

 

Testa, cuore, mani per ricostruire il futuro

Alla crisi sanitaria e a quella climatica, dunque, è giunto il momento di aggiungere anche quella dell’immaginazione sociale. È bene specificare che non si tratta di una crisi meno urgente delle altre. Una fertile intelligenza collettiva dovrebbe essere, anzi, a fondamento dell’innovazione dei sistemi socio-politici. È di questo che abbiamo bisogno, ancor più che dello sviluppo tecnologico, per riparare le ingiustizie ecologiche e sociali che abbiamo arrecato alla Terra e ai suoi abitanti.

 

Pianificare un futuro in cui sia possibile, per l’umanità intera, riprendere il controllo delle emissioni di gas serra e delle disuguaglianze dilaganti, in modo da ripristinare gli equilibri degli ecosistemi feriti dalla crisi ecologica, significa, d’altro canto, immaginare qualcosa di totalmente inedito, nuovo, originale. Uno scenario che ancora non esiste, se non in forma germinale in alcuni contesti molto specifici, come ad esempio quelli raccolti nel Network delle città di Transizione

Si tratta di una rete di città in cui piccoli gruppi di persone si sono “messe insieme” e hanno abbracciato radicalmente l’idea di un’economia circolare. A partire da piccoli progetti come l’organizzazione di cineforum sul cambiamento climatico, l’orto urbano, la cura condivisa degli spazi pubblici, hanno iniziato un movimento dal basso che in alcuni casi è riuscito a trasformare anche il modo di fare politica e di produrre energia a livello locale. 

 

Nata da un “sogno a occhi aperti” dell’attivista inglese Rob Hopkins, autore del libro “Immagina se… Libera il potere dell’immaginazione per creare il futuro che desideri”, negli ultimi quindici anni l’esperienza della Transizione si è diffusa nelle città di più di cinquanta Paesi, grazie a pochi principi la cui essenza si può riassumere in tre parole: testa, cuore, mani. 

 

Testa: agire in base alle migliori informazioni scientifiche disponibili, mettendo in campo la propria intelligenza collettiva per elaborare stili di vita migliori. Cuore: usare compassione ed empatia verso se stessi e gli altri, qualunque sia il lavoro che si sta svolgendo, senza dimenticarsi di celebrare i traguardi raggiunti. Mani: sperimentare con la pratica, realizzando progetti concreti nelle proprie realtà locali, che possano trasformarsi in vettori di cambiamento capaci di rinnovare l’economia.

 

Una visione da “sognare insieme”

Le città di Transizione sono già una realtà anche in Italia, come ad esempio a Santorso (VI) e Valsamoggia (BO). Da molto tempo ormai illustrano a chi le osserva che riappropriarsi della capacità di immaginare positivamente il futuro è possibile, anche nelle condizioni più strane e difficili. Se ci si lascia nutrire da visioni potenti (ma non sclerotizzate dall’utopia), ci si radica nell’analisi rigorosa del sistema attuale (ma si resta aperti alle novità emergenti) e si agisce in modo sperimentale e giocoso (senza farsi fagocitare da un attivismo totalizzante) si possono innescare dinamiche di cooperazione sociale capaci di cambiare il mondo. Non è un sogno irrealizzabile, ma quello che insegna la storia dell’evoluzione umana.

 

«Grandi numeri di estranei», spiega lo storico Yuval Noah Harari, «riescono a cooperare con successo se credono in miti comuni». Tutto sta nel costruire una visione comune efficace, che catalizzi al meglio la vera “arma segreta” dell’umanità: «la capacità di trasmettere informazioni su cose che non esistono affatto», ovvero di dare una forma al futuro ignoto attraverso l’immaginazione, e «di farlo collettivamente» (Harari, Sapiens. Da animali a dèi, pp. 36-40). 

 

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