Criteri ESG: possono da soli conciliare finanza e sostenibilità?
Meglio piuttosto concentrarsi sul clima, misurare le emissioni e definire standard regolatori
di Francesco Graziano
La crescita dei fondi ESG (Environment, Society, Governance) è tra le novità finanziarie più rilevanti dell’ultimo decennio. La loro affermazione ha per certi aspetti rivoluzionato sorprendentemente il mercato dei capitali, contribuendo a finanziare le tecnologie necessarie alla transizione ecologica ed energetica.
La crescita dei fondi ESG è guidata soprattutto da un cambiamento generazionale nel modo in cui gli investitori guardano al proprio impatto sul pianeta, prestando maggior attenzione al “fare del bene” oltre che al “fare soldi”.
Tuttavia la finanza sostenibile ha ancora tre fondamentali punti critici: obiettivi da semplificare, metriche da standardizzare e normative da far rispettare. Solo una volta affrontati questi aspetti si potrà assistere alla maturazione dei fondi ESG in forme di investimento più incisive e durature.
Partiamo dalle definizioni: cosa sono i criteri ESG?
Ambiente, Società, Governance: ecco le tre aree – Environment, Society, Governance appunto – che l’acronimo raccoglie sin dalla sua definizione nel 2004.
In principio, i criteri ESG nascono come strumento di risk management: mettere in evidenza le performance sociali e ambientali è anche un modo per valutare i rischi normativi e reputazionali che derivano dalle esternalità negative. In altre parole, emerge la consapevolezza che le grandi sfide globali si traducono in rischi anche per investitori e imprese, per cui è meglio tenerne conto esplicitamente.
Il concetto diviene poi mainstream quando negli ultimi anni crescono – anche per ragioni generazionali – le preoccupazioni globali per clima, giustizia sociale e inclusività. Si rafforza così l’idea del cosiddetto “impact investing”, ovvero che gli investitori debbano valutare le aziende non solo in base alla performance economiche ma anche all’impatto ambientale, sociale e di governance, da misurare con rating e punteggi numerici.
Problemi e critiche: la confusione sugli obiettivi
Negli ultimi anni i criteri ESG sono stati oggetto di numerose critiche: da un lato c’è chi li ritiene responsabili di eccessivi oneri e costi in capo alle aziende mentre dall’altro c’è chi li etichetta come azioni di “greenwashing” prive di impatti concreti.
Più semplicemente, il sistema ESG mostra delle imperfezioni e necessita di un aggiustamento rispetto a un problema reale: il voler raggiungere troppi obiettivi contemporaneamente. Le decine di target ambientali, sociali e di governance – a volte anche in aperto conflitto tra loro e rispetto agli obiettivi di redditività delle aziende – complicano infatti il calcolo di un punteggio univoco e coerente delle performance aziendali.
Inseguire così tanti criteri non permette sempre di soddisfare tutte le parti interessate ed espone i criteri ESG a una discussione meno fattuale sul tentativo di definire un’azienda “buona” oppure “cattiva”.
Una sola priorità, la “E” di emissioni
Le regole di contabilità internazionali hanno un obiettivo – la chiarezza – e ricorrono a bilanci standardizzati per verificare facilmente le performance aziendali. Misurare un buon investimento diventa così possibile ricorrendo a principi condivisi e coerenti a livello globale.
Le informazioni di sostenibilità dovrebbero seguire lo stesso modello di semplicità: più sono standardizzate, più facile sarà valutare quali aziende hanno un impatto positivo sul pianeta.
Ecco perché i molteplici e a volte contraddittori criteri ESG stanno in parte cedendo spazio alla misurazione di una sola priorità globale: le emissioni di gas climalteranti in atmosfera. Anziché inseguire indicatori ambientali che provino a essere onnicomprensivi, gli investitori sono così in grado di monitorare l’impronta dei loro portafogli (e quanto questa si riduca nel tempo).
Del resto sono ormai numerosi i gruppi di investitori, banche e imprese che hanno firmato una serie di alleanze impegnandosi a ridurre le proprie emissioni e quelle dei loro portafogli, incluse le più recenti GFANZ, GSIA e IGCC.
Una volta scelto l’indicatore – le emissioni – resta tuttavia il problema di definire metriche condivise e standardizzate. È qui che interviene una forma di contabilità climatica che – nel contesto del Protocollo internazionale GHG (https://ghgprotocol.org) – definisce tre ambiti concentrici di emissioni (o “scopes”) da misurare:
- scope 1, ovvero le emissioni più semplici da misurare in quanto generate direttamente dall’azienda,
- scope 2, che include oltre allo scope 1 anche le emissioni relative al fornitore di energia e connesse ad esempio agli acquisti per i propri consumi elettrici,
- scope 3, che include oltre allo scope 2 anche le emissioni riconducibili in maniera più ampia all’azienda, ad esempio per la fornitura di materie prime o per la mobilità dei dipendenti.
Dalla trasparenza volontaria agli obblighi di rendicontazione
Al fine di misurare l’impatto delle proprie attività, è fondamentale che gli investitori dispongano di dati di qualità per tali valutazioni. Rispetto a pochi anni fa, il panorama dei dati ambientali si è evoluto positivamente (pensiamo ad esempio ai rapporti di sostenibilità) ma solo ora si fanno passi significativi verso il cambiamento più atteso: requisiti obbligatori e standard per tutte le aziende.
Sono ormai numerosi gli esempi recenti su questo:
- l’Unione Europea dovrebbe approvare entro il 2022 la nuova direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità aziendale (EU Corporate Sustainability Reporting Directive – CSRD) in applicazione della quale passerebbero a 49.000 le aziende tenute ad effettuare una reportistica in materia, rispetto alle 11.600 attuali,
- negli Stati Uniti, le nuove regole proposte dalla SEC mirano alla divulgazione dei rischi climatici attuali e futuri di un’azienda, con informazioni sui piani di azione, sull’esposizione a eventi meteo estremi e sul calcolo delle emissioni fino allo scope 3,
- l’International Sustainability Standards Board (ISSB), un ramo di nuova creazione della Fondazione IFRS, mira a rendere le informazioni non finanziarie coerenti e valide quanto quelle finanziarie nei documenti aziendali,
- anche la Global Reporting Initiative (GRI) ha intrapreso sforzi simili per creare una contabilità in linea con standard e specifiche metriche di sostenibilità.
Affinché le regole abbiano un impatto globale, però, serve che le informazioni siano affidabili. Ecco perché le grandi società di consulenza e rating stanno investendo molto nel settore, con PWC che ad esempio ha dichiarato di investire 12 miliardi di dollari per 100.000 nuove figure professionali dedicate in parte proprio al monitoraggio dei criteri ESG.
Il ruolo delle istituzioni: toccherà farsi trovare pronti
La maggiore trasparenza in ambito di emissioni climalteranti è certamente un’eredità positiva dei criteri ESG. Rendere pubblico e in modo più accurato quanto le aziende inquinano aiuterà consumatori e investitori a comprendere cosa fa davvero la differenza per il clima.
Tuttavia una migliore informazione non può da sola fermare il riscaldamento globale. Per giungere a risultati concreti, non si potrà fare a meno del ruolo legislativo ed esecutivo di Governi ed enti regolatori per conciliare gli obiettivi di redditività aziendale con i target climatici globali.
Toccherà fare presto per guidare questo processo di cambiamento anche nella finanza. Dopotutto non c’è futuro per nessuno su un pianeta distrutto, inclusi gli investitori.
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