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Che cos’è la decrescita?

Che cos’è la decrescita? Slogan, movimento sociale, teoria, pratica

di Ettore Barili e Verdiana Fronza

 

Produrre e consumare senza limiti in una realtà di risorse finite

Quando si parla di economia, viene spontaneo dare al termine “crescita” una valenza positiva: livelli di produzione e consumo crescenti sono associati nell’immaginario comune alle idee di benessere e di un’economia sana. Ma le critiche alla crescita economica, misurata convenzionalmente in prodotto interno lordo (PIL), si moltiplicano. Il PIL infatti considera positiva qualsiasi transazione economica, anche quella dovuta a una catastrofe, a una guerra o a un’epidemia; e non tiene conto dei danni arrecati dall’economia agli ecosistemi e alla salute delle persone, “nascondendo” per giunta le disuguaglianze di reddito.

 

L’impatto ambientale generato dalla crescita economica è ampiamente studiato. I processi sottesi a un aumento del PIL sono fortemente legati al consumo di energia, combustibili fossili e materie prime e alla produzione di rifiuti. In una realtà odierna caratterizzata da risorse limitate, questi processi contribuiscono al superamento di alcuni confini planetari: per nove aree critiche, dal cambiamento climatico alla perdità di biodiversità, sono stati individuati i livelli da non oltrepassare per garantire la stabilità del sistema Terra e il benessere delle generazioni future. Andare oltre lo “spazio operativo sicuro” (safe operating space), come stiamo facendo, aumenta il rischio di causare danni irreversibili all’ambiente.

 

Rappresentazione grafica dei confini planetari aggiornata al 2022. Fonte: Azote for Stockholm Resilience Centre, basato sull’analisi di Persson et al 2022 e Steffen et al 2015.

 

Gli sforzi realizzati nella cornice del modello economico dominante non sembrano essere in grado di ridurre sensibilmente le pressioni esercitate dall’economia sui processi fisici, chimici e biologici del pianeta. Sebbene in alcuni Paesi si osservi un disaccoppiamento assoluto della crescita economica dall’emissione di gas climalteranti (14, secondo uno studio del 2021), a livello globale il processo è ancora “relativo”. Questo significa che, nel mondo, le emissioni continuano a crescere anche se meno rapidamente del PIL; ma è necessario un disaccoppiamento significativamente più veloce per restare sotto la soglia dei 1.5°C di aumento globale delle temperature medie annue e rispettare gli accordi di Parigi.

 

 

Il disaccoppiamento assoluto di emissioni climalteranti e crescita economica non è ancora avvenuto. Il grafico rappresenta il cambiamento delle emissioni di CO2 e del GDP a livello globale. Le emissioni dovuto al cambio dell’uso di suolo non sono incluse. Fonte: our world in data

 

Per quanto si faccia affidamento sull’impiego di nuove tecnologie come la cattura, l’immagazzinamento e lo stoccaggio (CCS) di CO2, che dovrebbe favorire un disaccoppiamento assoluto su scala mondiale, esistono molti dubbi riguardo la loro applicabilità. Il CCS richiede grandi spazi per lo stoccaggio sottraendo terreno ad altre attività. Senza contare che, in un sistema orientato alla crescita infinita, le innovazioni tecnologiche possono portare a un effetto rimbalzo. Nel lungo termine migliorie nell’efficienza, per esempio quella energetica, possono portare a una diminuzione dei costi incoraggiando ulteriori produzione e consumi e vanificando così i benefici ambientali ricercati.

 

I limiti dell’attuale modello di crescita non si definiscono solo in termini di emissioni. Il disaccoppiamento tra il consumo di energia primaria e di acqua e la crescita economica è solo relativo e limitato ad alcuni paesi e a brevi periodi di tempo. Spesso, inoltre, il disaccoppiamento energetico osservato per alcuni paesi è il risultato di una delocalizzazione delle attività produttive ad alta intensità energetica; una dinamica che contribuisce a vanificare gli sforzi dei paesi emergenti per ridurre la propria impronta ecologica. 

 

Se per energia e acqua il disaccoppiamento è relativo, non si può dire lo stesso dell’uso di risorse minerali, fossili e biomasse. La quantità di risorse estratte a livello globale per soddisfare il consumo di beni e servizi (material footprint) è cresciuta di dodici volte dal 1900 al 2015 e ha subito un’accelerazione a partire dagli anni duemila. Nei Paesi membri dell’OCSE, la material footprint è aumentata del 50% in meno di 20 anni (1990-2018), accompagnando l’aumento del PIL. Questa situazione non è sostenibile: molti studi si trovano d’accordo nel fissare la soglia massima  di risorse annue estraibili a 50 miliardi di tonnellate; eppure già nel 2019 sono stati 96 i miliardi di tonnellate estratti.

 

In questo contesto, l’artificializzazione indotta dalla crescita economica non fa che aggravare gli impatti sugli altri confini planetari. Infatti, la distruzione di interi ecosistemi per fare spazio alle attività produttive ha effetti a cascata sul consumo di energia e l’emissione di gas serra, la deforestazione, le perdite di habitat e quindi di biodiversità.

 

Oltre ad andare di pari passo con la degradazione ambientale, superati certi livelli, la crescita economica non sembrerebbe renderci più felici. Il paradosso di Easterlin mostra come, sebbene esista una correlazione positiva fra il reddito e il benessere percepito, questa appare piuttosto debole e tende a diminuire al crescere del PIL. Per esempio, negli Stati Uniti esiste un netto divario fra il PIL e il livello dichiarato di felicità. Questo suggerirebbe che, dopo una certa soglia, un modello che spinge alla crescita continua della produzione e del consumo di beni e servizi non solo danneggia l’ambiente, ma non porta neanche ad aumenti sostanziali in termini di benessere.

 

La relazione fra crescita del PIL (GDP) e soddisfazione della vita è positiva, ma l’effetto di un aumento del PIL tende a ridursi e scomparire più l’indicatore cresce (la curva diventa un plateau). Fonte: The Behavioural Insights Team

 

Un’alternativa “rivoluzionaria”: rallentare l’economia

La critica al PIL e all’idea di economia ad esso associata ha creato lo spazio necessario per discutere ed elaborare approcci diversi all’economia. Un concetto ampiamente condiviso a livello istituzionale – per esempio dalle Nazioni Unite, la Banca Mondiale e l’OCSE – è quello di favorire una crescita verde come motore dello sviluppo sostenibile. La “crescita verde” è efficiente nell’uso delle risorse naturali, pulita, resiliente e disaccoppiata dagli impatti ambientali. Ma è anche possibile? Come abbiamo visto, crescere senza superare i confini planetari e riducendo l’uso delle risorse naturali, l’energia e le emissioni, è una teoria che non trova a oggi riscontro tangibile nella realtà delle nostre economie. Forse è proprio la crescita in se stessa a non potersi conciliare con il benessere ambientale e sociale. O almeno, questo è quello che sostengono i teorici della decrescita.

 

Il termine “decrescita” fa la sua prima apparizione in Francia nel 1972 per descrivere un’alternativa al modello capitalista. Il concetto sarà poi ripreso trent’anni dopo come slogan da alcuni attivisti francesi e italiani. Negli ambienti accademici, la nozione di decrescita trova terreno fertile nella tradizione di studi e ricerche emersa negli anni 70. Infatti, in questo periodo studiosi e intellettuali iniziano a teorizzare l’esistenza di limiti fisici alla crescita della produzione di beni e servizi favorendo l’emergere di nuovi approcci allo studio dell’economia. 

 

La decrescita è un concetto normativo. L’ipotesi è che sia possibile e desiderabile transitare l’attuale sistema politico-economico, caratterizzato da alti tassi di produzione e consumo e da politiche che mirano a farli crescere indefinitamente, verso un sistema  con livelli di produzione e consumo più bassi, in cui ogni persona possa soddisfare i propri bisogni e godere di una buona qualità della vita senza compromettere l’equilibrio ecosistemico. 

 

Per ovvie ragioni, la teoria decrescentista non vuole essere la panacea di tutti i mali, ma trova la sua applicazione solo in determinati contesti. Dal punto di vista geografico, la decrescita si rivolge ai Paesi che hanno già raggiunto livelli di ricchezza tali da garantire la soddisfazione dei bisogni primari, e all’interno di questi, si concentra sulle fasce più abbienti della popolazione.

 

Inoltre, la riduzione della produzione e dei consumi dovrebbe interessare principalmente  quei beni e servizi che hanno impatti socio-ecologici distruttivi. Tra i settori che la decrescita propone di rallentare troviamo, per citarne alcuni, l’industria bellica, il fast fashion e la pubblicità. Ciò non toglie che i settori ritenuti socialmente utili, come l’educazione, la sanità, i trasporti pubblici e l’edilizia residenziale pubblica, possano continuare a crescere.

 

Una pianificazione necessaria

L’aspetto normativo e valoriale menzionato sopra emerge chiaramente. La decrescita rimette in gioco i fondamentali del sistema economico e politico in cui viviamo, sfidando il modo di pensare dominante orientato all’espansione economica ad ogni costo. Inoltre, una transizione sistemica non può che generare, almeno in una prima fase, dei “perdenti” e dei costi. Per queste ragioni, l’attuazione di politiche di decrescita potrebbe conoscere una forte opposizione. Si  potrebbe per esempio obiettare che la decrescita assomiglia molto alla recessione e che potrebbe avere degli effetti negativi, per non dire devastanti sulla popolazione, soprattutto le fasce più fragili.

 

Qui entra in gioco l’aspetto della pianificazione democratica della decrescita che, secondo i suoi difensori, dovrebbe evitare i danni che una riduzione della produzione e dei consumi potrebbe occasionare sulla qualità della vita delle persone che lavorano nei settori più colpiti. Per i decrescentisti, la differenza tra la decrescita e una riduzione della produzione caotica e disordinata (recessione) sta in un’organizzazione della contrazione dell’economia anticipata e partecipata da tutti gli attori della società civile. L’elaborazione di un piano è in questo senso la garanzia di una transizione i cui effetti potenzialmente nocivi possono essere ridotti e le conseguenze benefiche ampliate. In questo senso, una riduzione dell’economia deve essere accompagnata da strategie di redistribuzione del reddito e riduzione delle disuguaglianze tali da garantire livelli di benessere soddisfacenti per il più ampio numero di persone possibile.

 

La pianificazione delle decrescita si renderebbe necessaria anche per un altro motivo: la stabilità dell’attuale sistema economico si basa sulla crescita. Gli attori che lo dominano e che ne traggono profitto potrebbero non essere disposti a invertire la rotta e ad agire in favore della riduzione della produzione e dei consumi. Infatti, anche la crescita è il risultato di una pianificazione dell’economia: le imprese decidono cosa produrre, in un’ottica orientata al profitto; gli individui pianificano il lavoro cercando di massimizzare il loro potere d’acquisto e i loro consumi, già fortemente orientati dalla pubblicità; e i governi pianificano la produzione dell’amministrazione pubblica e regolano la produzione in generale. 

 

Tra le tante strategie avanzate dai teorici della decrescita per incoraggiare la pianificazione della riduzione della produzione e dei consumi, troviamo la democratizzazione del governo delle imprese. Favorendo l’emergere di cooperative, essa permetterebbe di “diluire” il potere di decisione relegato a un ristretto gruppo di azionari e di evitare che ogni tentativo di trasformare l’impresa in un’ottica diversa o contraria al profitto non venga bloccato.

 

Il ruolo delle politiche pubbliche nel progetto di decrescita

Una volta esplorata la teoria della decrescita, sorge spontaneo chiedersi in che modo e se sia possibile per le politiche pubbliche favorirne l’applicazione. Ridurre la dipendenza dalla crescita non dipende infatti dai soli consumatori, ma anche dalle scelte governative. Un recente commento apparso su Nature descrive le politiche pubbliche che potrebbero essere implementate per  garantire il  funzionamento di un sistema politico-economico a più bassa intensità produttiva. Un miglioramento dei servizi pubblici e l’accesso universale a beni e servizi di base potrebbero permettere di salvaguardare la qualità della vita dei più con un impatto minimo sull’ambiente  – come accade quando si usano trasporti pubblici efficienti. Studi comparativi rilevano infatti come simili politiche siano statisticamente più efficaci per far crescere il benessere generale e molto meno intense ecologicamente di politiche che mirano a far crescere il PIL. 

 

Concretamente, sono tre le strategie politiche che un governo può perseguire per favorire la riduzione della produzione e dei consumi di beni e servizi. Prendiamo l’esempio dell’aviazione: il divieto, che in questo caso potrebbe tradursi nella cancellazione progressiva di alcune tratte di volo e della pubblicità dei viaggi in aereo, è senz’altro la misura più efficace. Seguono il razionamento attraverso l’istituzione di un sistema di quote che fissi il numero massimo di chilometri di volo che ciascuno può realizzare in un dato periodo; e la fiscalità aumentando per esempio le tasse sul kerosene o instaurando una tassa progressiva sui biglietti d’aereo.

 

Un progetto concreto

Nonostante l’opposizione che un cambiamento così radicale e sistemico suscita già e susciterà in futuro, strategie e politiche vicine al pensiero decrescentista stanno emergendo a livello locale, nazionale e globale. Proprio di questa decrescita concreta discuteremo in una prossima intervista con Daniele Vico, dottorando in Economic History and Development presso la “Faculty of Economics and Business” dell’Università di Barcellona e volontario dell’associazione Research & Degrowth.

 

La ricerca sulla decrescita sta raccogliendo sempre maggiori evidenze del fatto che condizioni di vita dignitose per tutte e tutti sono possibili senza superare i confini del pianeta, a patto che ci sia la volontà di perseguire determinate e coraggiose scelte.

 

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