Cos’è il “deficit ecologico” (e perché continuiamo ad ignorarlo)
A partire dalla rivoluzione industriale, l’umanità ha cominciato a vivere al di sopra delle possibilità fisiche offerte dal Pianeta. Ma sembra continuare ad ignorare il problema.
di Simone Calò
L’urgenza di far riferimento alla scienza nella narrativa sociale
Sono passati pochi giorni dall’anniversario dalle prime restrizioni dovute al Covid-19, un singolo e drammatico avvenimento che ha sconvolto le vite di miliardi di esseri umani quasi contemporaneamente. Se rimane una certezza dai mesi passati è che la schizofrenia della politica e dell’informazione tradizionali non hanno aiutato la comprensione delle dinamiche di funzionamento della scienza, del suo rapporto con la politica e i contorni molto più ampi di una crisi che non è solo legata al fenomeno della diffusione del virus ma bensì alla distruzione di interi ecosistemi e alla perdita di biodiversità.
Il rapporto tra virus e sfruttamento delle risorse è stato ampiamente indagato e dimostrato; da qui diventa non solo utile, ma necessario porre maggiore attenzione sulle evidenze scientifiche che ci indicano come la crisi ecologica e climatica debbano essere il presente e l’orizzonte di ogni decisione politica. Occorre fare ordine, e per farlo è fondamentale fotografare la realtà del “deficit ecologico“, una realtà spesso trascurata nel dibattito pubblico e dalla politica tutta, nazionale e internazionale.
Cos’è il deficit ecologico
Sicuramente molti di voi ricorderanno, un po’ perché dotati di ottima memoria oppure perché ogni giorno essa ci viene rinfrescata, che l’Italia è uno dei paesi con il più elevato debito pubblico. Un fardello pesante per le presenti generazioni ma soprattutto per quelle future. Un po’ come l’Italia, che si ritrova a spendere più di quanto non possegga, il deficit ecologico rappresenta la certezza scientifica del sovrasfruttamento delle risorse naturali.
L’umanità vive costantemente al di sopra delle possibilità fisiche offerte dal Pianeta. In altre parole, l’uomo consuma beni e risorse naturali in modo più veloce rispetto a quanto la “natura” riesca a reintegrarne nell’arco temporale di un anno. Questo enorme ammontare di deficit annuo ha sostanzialmente prodotto un debito (misurato dal 1970 al 2019) di 1,75 Terre. Per intenderci, facciamo finta di avere due arance della stessa dimensione: la prima è la Terra sulla quale viviamo; la seconda tagliatela poco oltre la metà: quella è la quantità fisica di Terra di cui avremo bisogno per continuare ad esistere come specie. Ma c’è un problema: quello spazio fisico non esiste. Per questo, non possiamo continuare a vivere come attualmente “viviamo”!
Le virgolette sono d’obbligo perché quel plurale è una finzione. Infatti, l’accesso e il consumo della maggior parte dei beni e dei servizi naturali è fortemente concentrato nelle nazioni più ricche. Basti osservare che, se tutta la popolazione mondiale vivesse come noi italiani, ci servirebbero ben 2.6 pianeti Terra. Debito che cresce inesorabilmente se si guarda agli Stati Uniti e al “tenore di vita non negoziabile degli americani”, (George Bush senior, nel 1989), che dominano la classifica dei più indebitati con 5.0 pianeti Terra.
Tradurre in termini semplici questi dati ci porta ad osservare le disuguaglianze tra nazioni non più in termini produzione e reddito ma, al contrario, in termini ecologici e di accesso a tutte quelle risorse che garantiscono il naturale sostentamento dell’uomo, con annesse la sua socialità e i suoi eccessi. Paradossale, quindi, è il fatto che gli indicatori (Pil e Pil pro capite) che guidano ogni ragionamento politico-economico circa lo stato di salute di un Paese escludano dal bilancio l’appropriazione di risorse naturali da tutte quelle nazioni (definite povere) che nella realtà sostengono fisicamente il nostro modo di vivere.
Un deficit che ci tramandiamo da secoli
Prima della Rivoluzione Industriale singoli eventi di deficit ecologico, come ad esempio la Grande deforestazione della regione nordica europea dell’anno 1000, erano compensati da una quantità di terra vergine ancora sufficiente a limitarne l’impatto alla sole aree geografiche interessate. Oggi, invece, il problema del deficit ecologico ha assunto una portata tale da divenire sistemico. Esso produce effetti devastanti che impattano in modo tangibile non solo a livello locale ma anche su scala nazionale e internazionale. Ad esempio il disboscamento della foresta amazzonica, una delle poche aree ancora incontaminate, oltre a sancire il collasso di un vero e proprio polmone verde del Pianeta, puó portare l’uomo a contatto con batteri e virus favorendo la loro capillare diffusione in ogni nazione.
La complessità e la vastità della crisi ecologica e le sue relazioni con l’emergenza climatica, sono tali che una singola azione positiva che vada nella direzione della transizione ecologica non è più sufficiente a ridurre l’immenso debito ecologico globale. Occorrono dunque strumenti eccezionali per far fronte alla situazione, come trattati internazionali capaci di vincolare, contemporaneamente e con pesanti sanzioni, gli Stati trasgressori di politiche compatibili con la situazione di deficit ecologico.
L’ostacolo a questo tipo di approccio è dato dall’essenza stessa dello Stato Nazione che, quale principale istituzione politica sovrana sul territorio, quindi sugli stessi beni e servizi naturali, potrebbe non voler rinunciare a quell’enorme fonte di ricchezza in grado di garantire il funzionamento della propria economia. Questo ragionamento vale, tra gli altri, per quegli stati dipendenti dall’estrazione e dal commercio di combustibili fossili e minerali (i cosiddetti Stati rentier). Una dipendenza pesante e non esclusivamente riconducibile ad istanze interne ma molto spesso dovuta alla continua domanda delle nazioni “sviluppate”, energivore di risorse fossili e materie prime.
Spinti in avanti dall’ideale del progresso tecnologico, abbiamo forse perso un’ “autocoscienza dei nostri limiti”, e ci siamo convinti di poter manipolare la realtà a piacimento, di poter perseguire una crescita infinita grazie ad un’energia illimitata. Ci siamo illusi, insomma, di progredire, quando in realtà stiamo preparando il terreno per una disfatta.
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