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Difendere l’ambiente sta diventando più pericoloso

Difendere l’ambiente sta diventando più pericoloso

Nel mondo, il numero di difensori ambientali assassinati è in aumento. Ma l’omicidio non è l’unica forma di violenza a cui sono sottoposti.

di Sebastiano Santoro

Francisco Vera è un difensore ambientale di soli 11 anni. Lo scorso 15 gennaio ha ricevuto minacce di morte anonime per una campagna che stava portando avanti in Colombia, il paese dove è nato, uno dei paesi più pericoloso al mondo per essere attivista ambientale. La sua storia è stata pubblicata da molti giornali internazionali, e perfino l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Michelle Bachelet, ha voluto ringraziarlo pubblicamente con una lettera, affermando che “il mondo ha bisogno di più giovani con la stessa passione di proteggere il pianeta”. A Francisco non è successo nulla. In fin dei conti, la sua è una bella storia. Però, le storie che riguardano difensori ambientali non sempre finiscono come quella di Francisco. Ma facciamo un passo indietro.

 

Chi sono i difensori ambientali

I difensori ambientali sono un gruppo eterogeneo di persone che intraprendono azioni, in maniera volontaria o professionale, per difendere il diritto a vivere in un ambiente sicuro, sano, pulito e sostenibile.

 

Spesso lo sono per necessità. Alcuni sono infatti leader indigeni o contadini che si oppongono a progetti di industrie estrattive (molte delle quali responsabili dell’attuale crisi climatica) che minacciano l’ambiente in cui vivono. Altri sono guardie forestali che combattono il disboscamento illegale. Ma potrebbero anche essere avvocati, giornalisti o personale di ONG che lavorano per denunciare abusi ambientali o l’accaparramento di terre. 

 

Le modalità delle loro azioni possono variare da paese a paese e da regione a regione, ma il punto in comune, secondo la definizione delle Nazioni Unite, è che tutti i difensori ambientali agiscono per proteggere i diritti ambientali, considerati un’estensione dei diritti umani fondamentali. Oggi l’esercizio di questi diritti è minacciato dalla crisi climatica e dalle pratiche di sfruttamento di tipo predatorio messe in atto dall’attuale modello di sviluppo socio-economico. I difensori ambientali, insomma, non sono altro che cittadini che agiscono per far rispettare i propri diritti ambientali quando questi vengono compressi dal sistema politico, sociale ed economico in cui vivono.

 

Un rapporto preoccupante

Come dicevamo, non tutte le storie che li riguardano hanno lo stesso epilogo di quella di Francisco. Nel 2019, 212 difensori ambientali sono stati uccisi: lo ha rivelato il rapporto annuale di Global Witness, un’organizzazione non governativa che da 25 anni registra le violenze contro i difensori ambientali. Sono oltre quattro a settimana, un record da quando l’ONG ha iniziato a raccogliere dati. Inoltre, negli ultimi anni il numero di omicidi è aumentato costantemente, testimoniando l’inasprimento dei conflitti ambientali in tutto il mondo. 

 

“Il business agricolo, quello legato all’estrazione petrolifera, di gas e a quella mineraria sono stati i principali motori degli attacchi contro i difensori ambientali – e queste sono anche le industrie che ci spingono ulteriormente verso il cambiamento climatico, con la deforestazione e l’aumento delle emissioni di carbonio” ha dichiarato Rachel Cox, un’attivista di Global Witness.

 

Secondo il rapporto, due terzi del totale degli omicidi sono avvenuti in America Latina (148 casi su 212), seguita da Asia (55)  e Africa (7). Nella lista sono presenti anche due casi avvenuti in Europa. Si tratta di Liviu Pop e Răducu Gorcioaia, due guardie forestali romene uccise un mese di distanza l’uno dall’altro. I due stavano cercando di fermare la deforestazione della Romania, che tra il 2001 e il 2019 ha registrato la scomparsa di 349 mila ettari di boschi. Il motivo principale della deforestazione è la produzione illegale di legname (spesso con il coinvolgimento della criminalità organizzata): un mercato di circa 1 miliardo di euro l’anno.

 

Ma questi dati non possono che essere parziali. Come spiega Mary Menton, ricercatrice in materia di giustizia ambientale dell’Università del Sussex e coautrice del rapporto, “non sorprenderebbe se il numero reale dei casi fosse doppio, considerando le difficoltà di registrazione dei casi e di indagine. Solo il 10% degli autori di questi crimini risponde delle proprie azioni davanti alla legge”. 

 

Le altre forme di violenza

L’omicidio è solo la forma di censura più estrema a cui sono sottoposti i difensori ambientali. Alle uccisioni vanno aggiunte altre forme di violenza: arresti, persecuzioni giudiziarie, violenze sessuali, aggressioni fisiche, minacce. Complessivamente, quindi, il pericolo per i difensori ambientali ha dimensioni ben più allarmanti di quelle sino ad ora riportate. 

 

In materia di conflitti ambientali, uno studio significativo è quello realizzato nel giugno 2020 da un gruppo di ricercatori dell’Università Autonoma di Barcellona (UAB) che ha analizzato i 2.743 conflitti ambientali, tutti contenuti nella mappa interattiva EjAtlas. I dati mostrano che gli attivisti sono per lo più membri di gruppi vulnerabili che utilizzano forme di protesta non violente. Nel 20% dei casi, le azioni dei difensori ambientali vengono criminalizzate con denunce, multe, persecuzioni giudiziarie e pene detentive; nel 18% dei casi gli attivisti sono vittime di violenza fisica; e nel 13% vengono assassinati. Queste cifre aumentano notevolmente quando sono coinvolte le popolazioni indigene, raggiungendo il 27% di criminalizzazione, il 25% di violenza e il 19% di omicidio.

 

Le violenze nei confronti dei difensori ambientali avvengono anche nei paesi sviluppati. Seguendo la classificazione della Banca Mondiale, esistono conflitti ambientali sia in paesi con reddito pro capite basso, che medio o, soprattutto, alto. 

 

Cosa si può fare?

Arnim Scheidel, ricercatore principale dello studio dell’UAB, suggerisce che il primo passo per aiutare i difensori ambientali “è comprendere meglio i conflitti ambientali sottostanti, nonché i fattori che consentono agli attivisti di mobilitarsi con successo”. I ricercatori considerano utile per limitare la violenza una maggior trasparenza nella gestione dei progetti di sfruttamento delle risorse naturali, sia da parte dei governi che delle multinazionali.  Questa trasparenza è necessaria “non solo laddove gli investimenti vengono fatti, ma anche nei paesi che investono”. Come a dire che c’è bisogno di un maggior senso di responsabilità mondiale, perché l’ambiente è uno solo e le conseguenze della sua compromissione sono tangibili per tutta l’umanità.

 

Ovviamente per diminuire la violenza sono utili anche i trattati internazionali. Il primo accordo specifico in materia entrerà in vigore il prossimo 22 aprile: è l’Accordo di Escazú. Ad oggi, però, è stato ratificato solo da 11 paesi latino-americani (Antigua e Barbuda, Argentina, Bolivia, Ecuador, Guyana, Messico, Nicaragua, Panamá, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Granadine e Uruguay). Prima di essere adottato, ha avuto un difficile periodo di gestazione -di fatto rimarranno fuori Cile, Brasile e Colombia- ma dopo la ratifica del Messico, lo  scorso 22 gennaio, si è chiuso un cerchio iniziato quasi dieci anni fa. 

 

In particolare, l’accordo include disposizioni che mirano a prevenire e punire qualsiasi minaccia, restrizione o insicurezza che colpisca gli attivisti ambientali. L’obiettivo è quello di creare delle condizioni giuridiche e sociali più sicure per le persone che promuovono e difendono i diritti umani in materia ambientale.

 

È inutile dire che questa firma rappresenta un passo avanti per la protezione dei difensori ambientali, ma la strada è ancora lunga. Sarebbe sicuramente auspicabile che anche il resto del mondo ratifichi questo accordo. Senza mai dimenticare che spesso le politiche internazionali rimangono lettera morta quando si sviluppano all’interno di contesti dove sono presenti problematiche come quella della criminalità organizzata o della corruzione. 

 

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