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L’Economia Comportamentale e il Cambiamento Climatico

L’Economia comportamentale e il cambiamento climatico

Una caratteristica che ha un impatto notevole tra le cause antropiche del cambiamento climatico, è il nostro essere impazienti.

Vi siete mai chiesti perché ci sembra possibile rubare delle penne dall’ufficio senza troppi rimorsi ma non ci si permetterebbe mai di prendere l’equivalente in denaro? O perché si trovi molto più allettante comprare tre birre da 30 cl piuttosto che due da 50 cl per lo stesso prezzo? O, ancora, perché ai nostri occhi una maglietta scontata da 15€ a 10€ risulta più attraente della stessa maglietta già a 10€? Oppure, per quale motivo comportarsi in modo sostenibile in alcune situazioni giustifica il non esserlo in altre? Come se spegnere la luce se non si è nella stanza rappresentasse uno sforzo sufficiente nella personale lotta contro il cambiamento climatico e dunque giustificasse poi lo stare mezz’ora sotto la doccia.

 

Spesso, le nostre azioni sono frutto di processi cognitivi che inconsapevolmente ci influenzano e che vanno al di là di meccanismi razionali quali utilità o massimizzazione di profitto – il primo inteso come misura di soddisfazione individuale, il secondo quale tendenza a rendere massima la differenza tra ricavi e costi. Questi meccanismi sono alla base del pensiero dell’economia neoclassica che ha ampiamente caratterizzato le politiche economiche e sociali dell’ultimo secolo.

 

Per decenni siamo stati dipinti come “mostri” economici: individui in grado di scegliere sempre l’opzione migliore, di fare un’analisi costi-benefici su ogni prodotto, di consumare più del necessario, di pestare i piedi agli altri pur di arrivare, di mangiare fino a star male se conveniva per il prezzo, di essere egoisti fino al midollo, di vivere in un mondo perfettamente in equilibrio. In pratica, degli affamati di fronte ad un buffet all-you-can-eat.

 

Agli economisti comportamentali piace pensare che l’economia comportamentale rappresenti una piccola rivoluzione che si propone di riporre l’essere umano al centro di modelli economici di cui è protagonista, con le eventuali sfumature irrazionali che lo compongono. Per definizione (vale a dire quel piccolo paragrafo noioso scritto in grassetto sul libro di testo), l’economia comportamentale è quella scienza sociale che studia attraverso il metodo sperimentale il modo in cui gli esseri umani prendono decisioni nel mondo economico.

 

Si tratta quindi di cercare di comprendere quali siano i fondamenti delle scelte degli individui – dall’ acquistare un’ auto nuova al preferire un certo marchio di banane rispetto ad un altro, dall’ iscriversi in palestra al fare la raccolta differenziata – sulla base di ciò che essi effettivamente fanno. Ecco che l’ uomo viene ridipinto non come robot razionale ma come insieme complesso: concetti come solidarietà, benevolenza, equità ed uguaglianza giocano, infatti, un ruolo chiave nelle decisioni economiche delle persone.

 

Ma cosa c’entra?

Perché scriverne qui? Vi starete chiedendo. Innanzitutto perché, in ambito climatico, l’economia comportamentale rappresenta uno strumento nuovo a disposizione dei decisori politici per sviluppare interventi pubblici in modo alternativo ed efficace. Efficace, dal momento in cui giustifica le nostre scelte di agenti economici basandosi su fatti, esperimenti realizzati e dati empirici, invece che su modelli teorici. Soprattutto in ambito ambientale, i nostri comportamenti si rivelano spesso irrazionali, o meglio, prendono delle derive dalla piena razionalità, sulla quale si basano la maggior parte delle scelte politiche.

 

Una caratteristica che ha un impatto notevole tra le cause antropiche del cambiamento climatico – ovvero relative alle attività dell’uomo – è il nostro essere impazienti. Questo significa che diamo più peso al presente che al futuro, che un euro oggi vale ai nostri occhi più che un euro domani. Per questo, ad esempio, abbiamo bisogno di schemi pensionistici, per trovarci forzatamente a risparmiare per il futuro.

 

Ecco perché agire in linea con una condotta volta a ridurre il nostro impatto climatico risulta così difficile: il clima sa essere più paziente di tutti e fa rimbalzare le conseguenze di comportamenti dannosi odierni a distanza di decenni. La differenza di tempo stimata tra causa ed effetto, infatti, è di circa 40 anni: vale a dire che l’innalzamento medio della temperatura globale di oggi è il risultato delle sostanze emesse negli anni 70 e che l’effetto degli abusi di oggi si riscontreranno intorno al 2060!

 

Risulta molto difficile privarsi di consumi e comodità nel presente per dei benefici collocati in un futuro poco definito, o addirittura in nome di qualcuno che ancora non esiste. In sostanza, c’è un problema di gap generazionale: cambiare abitudini sembra essere la difficoltà maggiore quando si tratta di moderare lo sfruttamento delle risorse in modo da garantire alle generazioni future di poter goderne in egual modo.

 

Per questo, durante gli ultimi vent’ anni, ricercatori ed economisti comportamentali hanno pensato a nuovi meccanismi volti ad influenzare il comportamento e le decisioni di gruppi ed individui (come, ad esempio, il nudging, di cui parleremo in seguito). Questi piccoli accorgimenti “comportamentali” sono in grado di avere un impatto tangibile sulla nostra condotta, e guidarci verso una svolta necessaria per ridurre la nostra impronta sul pianeta.

 

Il piano

Questo breve pezzo, volto ad introdurre brevemente l’economia comportamentale e a convincere della sua rilevanza in ambito climatico, è il primo di una serie di articoli che porteranno esempi concreti che uniscano i due mondi e che possano incuriosire e far riflettere. L’obiettivo è dunque di rappresentare una sorta di tramite tra esperimenti tratti da articoli accademici da tutto il mondo e una lettura piacevole da Domenica sera, cercando di riportare il più possibile terra terra contenuti spesso poco accessibili perché infiocchettati in “angloeconomichese”.

 

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