Le elezioni USA sono l’ultima chiamata per il clima
Il risultato che uscirà dalle urne statunitensi sarà di portata storica per la lotta ai cambiamenti climatici. Non possiamo permetterci un altro mandato di Trump.
di Marta Arbinolo e Federico Mascolo
copertina di Dada
Oggi si vota per eleggere il futuro Presidente degli Stati Uniti. Gli ultimi sondaggi sembrano favorire Joe Biden, il candidato dei Democratici, sul Presidente uscente Donald Trump. Eppure, come abbiamo imparato alle scorse elezioni americane, l’esito non può essere dato per scontato. Se la gestione della pandemia e la questione razziale sono stati due temi centrali dei dibattiti presidenziali delle scorse settimane, questo voto ha molto a che fare anche con la crisi climatica – fondamentale nella corsa elettorale come mai prima d’ora nella storia degli Stati Uniti. Il risultato che uscirà dalle urne sarà di portata storica nella lotta ai cambiamenti climatici, tanto a livello americano quanto globale.
Un’altra presidenza Trump sarebbe un disastro
Trump è a tutti gli effetti un negazionista climatico. La sua scarsa fiducia nella scienza del clima è emersa in innumerevoli discorsi, nelle interviste e sui social media. E nonostante nell’ultimo dibattito presidenziale abbia dato segni di credere “in una certa misura” all’impatto dell’uomo sul cambiamento climatico, l’attuale presidente USA ha tenuto a precisare che, se sarà rieletto, “gli Stati Uniti non si sbarazzeranno dei combustibili fossili ancora per molto tempo”.
Il negazionismo climatico è molto diffuso anche tra le persone vicine a Trump. Mike Pence, l’attuale (ed eventualmente futuro) Vicepresidente, continua a negare l’origine antropica del riscaldamento globale. Persino la neoeletta Giudice della Corte Suprema Amy Coney Barrett, vicina a Trump, si è rifiutata di esprimere un’opinione sul cambiamento climatico, a suo dire una “questione politica e troppo controversa”. Purtroppo, l’impatto che la presidenza Trump ha avuto in ambito climatico va ben oltre questa interminabile sequela di dichiarazioni infondate, perché alle parole sono seguiti i fatti.
Tra questi, la decisione di ritirare gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, considerato “un ingiusto fardello economico” per l’economia americana, è stata probabilmente la più teatrale. Con questa mossa, Trump ha inferto un colpo pesantissimo alle negoziazioni internazionali sui cambiamenti climatici: non avere il secondo emettitore al mondo al tavolo delle trattative significa infatti ridurre al lumicino le possibilità di contenere l’innalzamento delle temperature globali entro le soglie di sicurezza. L’ironia della sorte vuole che l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo entrerà in vigore mercoledì 4 novembre, esattamente un giorno dopo le elezioni presidenziali.
A livello di politica interna, la presidenza Trump è stata caratterizzata dal sistematico smantellamento di oltre un centinaio di normative ambientali in diversi settori dell’economia statunitense. Tra tutte, spicca la decisione di rimpiazzare il “Clean Power Plan” – il piano per ridurre le emissioni del settore elettrico voluto dall’amministrazione Obama – con un regolamento ben più lasco. L’indebolimento degli standard ambientali statunitensi comporterà anche il rilascio nell’atmosfera di 1.8 miliardi di tonnellate di gas serra aggiuntivi da qui al 2035: più di quanto emettano complessivamente Regno Unito, Germania e Canada in un anno!
L’amministrazione Trump ha anche spalancato le porte al ritorno dei combustibili fossili, ad esempio concedendo sussidi per le centrali a carbone per renderle competitive sul mercato, dando il via libera agli oleodotti Keystone XL e Dakota Access e autorizzando un aumento delle esplorazioni petrolifere su suolo pubblico. Tra le aree coinvolte c’è anche l’Arctic National Wildlife Refuge, uno dei parchi naturali più importanti dell’Alaska.
Per finire, anche la crescente interferenza di Trump nei centri di ricerca scientifica statunitensi è fonte di non poca preoccupazione. Alla NOAA, la principale agenzia scientifica statunitense, al Dipartimento dell’Energia e presso l’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA) si sono susseguiti numerosi casi di cancellazione e manomissione di dati, nonché di licenziamento ingiustificato di validi scienziati dai propri incarichi, perché non conformi alle idee di Trump. Ironicamente, l’EPA è persino presieduta da un negazionista climatico, nonché ex-lobbista del carbone.
E se vince Biden?
La situazione sarebbe molto diversa se vincesse Joe Biden. Ex vice-presidente della presidenza Obama, Biden ha un piano dettagliato (il più ambizioso mai presentato da un candidato alle presidenziali statunitensi) e obiettivi climatici relativamente ambiziosi, tra cui il raggiungimento della neutralità climatica e l’uso esclusivo di energia pulita entro il 2050.
La transizione energetica è al centro del Piano per il Clima di Biden. Il candidato Democratico ha promesso di eliminare i sussidi pubblici a petrolio e gas naturale, di chiudere le centrali a carbone entro il 2035, e di ripristinare la tutela ambientale e climatica stabilita dall’amministrazione Obama poi smantellata da Trump. Il motore di questa transizione un piano di investimenti da 1.7 trilioni di dollari da destinare alla produzione di energia pulita, e poi a trasporti pubblici e veicoli elettrici, edilizia e infrastrutture, ricerca e supporto alle imprese “verdi”. Per esempio, Biden intende raddoppiare l’efficienza energetica degli edifici del paese in soli 15 anni.
Le politiche di Biden sembrano anche tener conto della spinosa questione della giustizia climatica, ovvero dell’impatto della transizione energetica sulle comunità più vulnerabili. I piani di Biden includono infatti investimenti in programmi di educazione e nella creazione di impieghi verdi, così come altre tipologie di supporto per le comunità il cui reddito dipende dai combustibili fossili. Allo stesso tempo, il 40% degli investimenti per promuovere infrastrutture a energia pulita sarà destinato alle comunità più svantaggiate.
Il cambio di rotta sul clima non dovrebbe esaurirsi alle frontiere degli Stati Uniti. Biden ha promesso di far rientrare gli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi, e più in generale di voler riportare gli Stati Uniti “al volante” della politica climatica globale. Oltre all’effetto-domino positivo che questa decisione avrebbe sulle scelte politiche di altri paesi, essa sarebbe fondamentale anche in termini di finanza climatica e di cooperazione internazionale. Biden ha già annunciato la volontà di collaborare con l’UE e la Cina, e di incoraggiare le ambizioni climatiche del Fondo Monetario Internazionale e dei governi del G20.
Qualche perplessità su Biden, tuttavia, rimane. Come chiarito anche nei recenti dibattiti presidenziali, il piano per il clima di Biden resta meno ambizioso del Green New Deal proposto dai parlamentari statunitensi Markey e Ocasio-Cortez. Inoltre, pur avendo dichiarato che impedirà l’aumento delle trivellazioni voluto da Trump, Biden non si oppone apertamente alla costruzione di nuove infrastrutture di combustibili fossili e ha dimostrato posizioni morbide anche sul fracking, una tecnica molto utilizzata negli USA per estrarre petrolio e gas naturale ma estremamente dannosa da un punto di vista ambientale.
L’ultima chance
La situazione è piuttosto chiara: la rielezione di Trump significherebbe trascorrere quattro anni molto simili a quelli passati, caratterizzati da sussidi alle fonti fossili e da colpi bassi alle regolamentazioni ambientali. Al contrario, una presidenza Biden, per quanto non ideale, rappresenterebbe indubbiamente un passo in avanti.
Probabilmente non sarebbe abbastanza. Per rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, gli Stati Uniti dovrebbero infatti dimezzare le proprie emissioni di gas serra in meno di dieci anni. Si tratta di un’impresa titanica che le promesse elettorali di Biden, ammesso che vengano mantenute, difficilmente riuscirebbero a portare a termine. Eppure una vittoria di Biden lascerebbe ancora accesa la speranza, perché costituirebbe quantomeno una base da cui ripartire.
Se domani sarà Biden, potremo ancora giocarcela. Se dovesse essere Trump, sarà la pietra tombale sulle ambizioni climatiche globali.
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