Questo nostro fascino per la fine del mondo
Dal cinema alla letteratura, il modo con cui raccontiamo la crisi climatica è caratterizzato da una buona dose di retorica apocalittica. Questa postura mentale, a ben vedere, semplifica la complessità del fenomeno. Fatichiamo però a superarla, perché l’apocalisse è un luogo che, paradossalmente, ci fa sentire abbastanza sicuri.
di Sebastiano Santoro
copertina di Veronica Comin – @veronicocco
Al netto di giudizi estetici, si possono fare due osservazioni su Don’t look up, il nuovo film di Adam McKay uscito il 24 dicembre su Netflix. La prima è che è stato un successo; sia per le centinaia di ore di visualizzazione registrate in pochi giorni (è il terzo film più visto di sempre della piattaforma statunitense); sia perché è tra i primi prodotti culturali di massa che mette sul tavolo il dibattito sui cambiamenti climatici (e lo fa, paradossalmente, senza parlarne apertamente).
La trama del film è abbastanza semplice: due scienziati scoprono l’esistenza di una cometa gigante che nel giro di poco più di sei mesi colpirà la Terra; la diffusione della notizia, però, non smuove a sufficienza la coscienza delle persone, così – attenzione: spoiler – alla fine la Terra viene colpita e l’umanità si estingue miseramente.
Don’t Look Up – Netflix Film
Da qui, la seconda osservazione. Se le intenzioni del regista erano quelle di aprire un dibattito sulla crisi climatica, quello che convince meno in Don’t look up è l’uso semplicistico della retorica apocalittica. La cometa avvistata dagli astronomi semplifica la complessità che invece dobbiamo affrontare con la crisi climatica: è qualcosa di specifico, limitato, che ha dei confini misurabili e segue un conto alla rovescia lineare.
Ad uno sguardo più attento, questa postura mentale non è esclusiva solo del film di McKay. Ad esempio un altro famoso disaster movie uscito nel 2004 e dichiaratamente dedicato al cambiamento climatico, The Day After Tomorrow di Roland Emmerich, presenta lo stesso tipo di narrazione. Vi è di più, in questo caso il fenomeno climatico è messo in scena in maniera ancora più superficiale: i suoi effetti si manifestano nell’arco di mezza giornata.
Finzione apocalittica
Spinti dall’esigenza di raccontare la crisi ecologica, negli ultimi anni numerosi scrittori hanno cercato di calare le dinamiche climatiche nelle trame dei propri romanzi. Così anche la letteratura, come il cinema, ha iniziato a dare spazio al tema. La critica ha incasellato questa nuova narrativa con la definizione di eco-fiction o climate fiction.
Entrambi sono sottogeneri della fantascienza che raccontano di catastrofi future, e lo fanno prevalentemente in due modi: con la distopia e il romanzo post-apocalittico. Gli esponenti all’estero sono numerosissimi, da Margaret Atwood a Ian McEwan, passando per Cormac McCarthy. Ma non mancano esempi anche qui da noi, come il romanzo di Bruno Arpaia Qualcosa, là fuori. Col tempo, i due sottogeneri sono diventati così diffusi da assumere una dignità autonoma rispetto alla fantascienza.Come ha notato la critica Carla Benedetti in La letteratura ci salverà dall’estinzione, i due filoni “sono certamente efficaci nel farci pensare possibile il disastro climatico che ci minaccia, abbattendo la rimozione che l’ha reso a lungo nascosto nonostante la sua evidenza scientifica, ma fanno leva su un solo sentimento, lo spavento per la catastrofe che ci aspetta”. Oltretutto le distopie contemporanee – secondo la docente dell’Università della California Ursula K. Heise – seppur provano a scuotere lo status quo, finiscono per confermarlo, riciclando così spesso i logori scenari delle apocalissi del passato da renderli quasi rassicuranti.
Sul tema, recentemente è uscito Raccontare la fine del mondo, un libro del ricercatore in letteratura comparata Marco Malvestio. La questione è vista più o meno in questi termini: “Uno dei grandi problemi dei discorsi intorno al cambiamento climatico e all’Antropocene in generale è […] la tendenza a rappresentarli come fenomeni […] dotati di una catastroficità più visibile e più facilmente contestualizzabile di quella che questi fenomeni hanno poi in realtà”.
Per capirci: la metafora apocalittica è stata certamente utile per impressionare il pubblico e i politici, ma per comprendere le enormi implicazioni del riscaldamento globale c’è bisogno di altro. “Attivisti, giornalisti e narratori – continua Malvestio – sono spesso in bilico tra due poli opposti: provare a raccontare i molti e spesso poco spettacolari aspetti del cambiamento climatico così come esso si sta verificando, oppure drammatizzarlo con immagini e storie che però, per quanto eloquenti, hanno poco a che spartirvi”.
Iperoggetti
In passato abbiamo già parlato delle difficoltà cognitive dell’essere umano nella comprensione della crisi climatica. Ora la faccenda si fa un po’ più problematica.
La crisi climatica è una concatenazione di fenomeni, in larga parte invisibili ai nostri occhi, che non possiamo ridurre a uno schema lineare del tipo on/off, inizio/fine. Un iceberg che si stacca, una tempesta di violenza eccezionale, estati sempre più calde, tutti questi sono avvenimenti locali di qualcosa di planetario e complesso; di un iperoggetto che gli esseri umani fanno estrema fatica a rappresentarsi – avrebbe aggiunto il filosofo Timothy Morton.
Ma quest’ultimo cosa intende quando parla di iperoggetto? La scoperta dello spaziotempo di Einstein, la vita del plutonio, il riscaldamento globale, tutti questi sono iperoggetti. Con questa categoria concettuale il filosofo inglese vuole indicare “entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo”. Per farci un’idea, il tempo con cui le emissioni radioattive del plutonio si dimezzano – cioè il tempo con cui questo elemento perde la sua radioattività – è di 24.100 anni.
Iperoggetti di Timothy Morton, edito da Nero Editions
La particolarità degli iperoggetti è che hanno alcune caratteristiche che compromettono la nostra capacità di comprenderli: sono viscosi, per il fatto che si attaccano silenziosamente agli esseri con i quali sono in relazione (da circa duecento anni siamo completamente immersi nel riscaldamento globale, nonostante solo da qualche decennio ce ne siamo accorti); sono non-locali, perché non possono essere percepiti nella loro interezza, ma solo come somma di fenomeni parziali (ogni manifestazione locale del riscaldamento globale non è il riscaldamento globale in sé, ma solo una sua parte). Oltretutto, insistono su scale temporali differenti a quelle a cui siamo abituati come esseri umani (il 7% delle molecole di carbonio emesse fino ad oggi persisteranno ancora in atmosfera per circa 100 mila anni; per fare un paragone, tutta la storia dell’uomo che si studia a scuola non va più indietro di 5 mila anni, quando cioè è stata inventata la scrittura).
Così come stanno le cose, gli iperoggetti mettono in crisi le capacità cognitive con cui abbiamo compreso e analizzato il mondo fino ad ora. Ma a quanto sembra, per spiegare e raccontare la crisi climatica, usiamo ancora la vecchia storia millenaristica dell’apocalisse. Perché?
Amiamo più la tragedia che la commedia
L’apocalisse narrata da Giovanni nell’ultimo libro del Nuovo Testamento racconta la storia della fine del mondo. Quando i sette angeli dell’apocalisse suoneranno le loro trombe, le acque diventeranno “amare”, le creature dell’oceano periranno, la luna e le stelle cadranno dal cielo – ardenti “come una fiaccola” – e infine il sole incenerirà l’intera umanità. Insomma, non proprio un bello spettacolo. Ma nel corso della storia, ne siamo sempre stati attratti.
Col passare dei secoli, l’apocalisse è stata infatti ripresa in testi letterari, filosofici, artistici, tanto da diventare un aggettivo che è entrato nel linguaggio parlato di tutti i giorni. Attualmente è uno dei qualificativi più usati, indiscriminatamente, per indicare ogni tipologia di catastrofe. Si scrive comunemente di scenari apocalittici, pensieri apocalittici, film e letteratura apocalittici. Anche gli avvertimenti degli scienziati sulle conseguenze del riscaldamento globale sono spesso bollati come apocalittici (con connotazione quasi sempre negativa). Scrive ancora Carla Benedetti: “L’apocalisse ha fornito una forma d’immaginazione e uno schema di pensiero che sono stati molto influenti in Occidente”.
Come mai? Perché l’apocalisse ci ha affascinato e ci affascina ancora oggi così tanto? O, come rileva lo scrittore argentino Jorge Luis Borges, “perché ci attrae la fine delle cose? Perché più nessuno canta l’aurora e non v’è chi non canti l’occaso? Perché ci attrae più la caduta di Troia che le vicissitudini degli Achei? Perché istintivamente pensiamo alla sconfitta di Waterloo e non alla vittoria? Perché la morte ha una dignità che la nascita non possiede? Perché la tragedia gode di un rispetto che la commedia non ottiene? Perché sentiamo che il lieto fine è sempre fittizio?”
Lo scrittore Giorgio Manganelli ha cercato di rispondere a queste difficili domande in un libro ormai introvabile, Letteratura come menzogna, che il critico Salvatore Ferlita ha pensato (considerati i tempi) di ripescare. Le tesi di Manganelli non concludono di certo la discussione, ma sono un tentativo ragionevole di rispondere, almeno in parte, a queste domande. L’apocalisse ha da sempre registrato grande consenso nell’immaginario degli scrittori perché sarebbe legata all’idea della fine come atto corredato di senso. Detto in altre parole, l’apocalisse sarebbe perfetta per dare significato a qualcosa che continua a sembrarci, nonostante tutto, scandalosamente insensato: l’estinzione degli esseri umani. La fine del mondo.
Lo scrittore e critico letterario Giorgio Manganelli – fonte Quodlibet
Il concetto di apocalisse implica, sottotraccia, anche un certo antropocentrismo: il sentimento degli esseri umani di sentirsi “eletti”, speciali, rispetto agli altri viventi; soprattutto noi di cultura occidentale. Pensiamoci: quante estinzioni di massa sono state registrate nella storia del nostro pianeta? Non è stata apocalittica anche l’esperienza reale, concretamente e violentemente vissuta da molti popoli durante il corso della storia?
Ed ecco spiegato anche il motivo per cui spesso si dice che è più facile pensare alla fine del mondo che alla fine del capitalismo. La fine del mondo è un luogo che abitiamo da secoli e in cui, paradossalmente, ci sentiamo perfino a nostro agio. La fine del capitalismo invece sarebbe per noi un salto nel vuoto, una strada nuova che mette a dura prova la nostra limitata immaginazione. Ci costringe a trovare alternative al modo di comprendere e raccontare noi stessi e la natura.
Bene, come usciamo da questo garbuglio? Non esiste una sola risposta a questa domanda. Qualcuno ha parlato della necessità di una vera e propria metamorfosi evolutiva, altri di riformulare completamente il nostro immaginario. Sicuramente abbiamo il dovere morale di trovare nuovi modi di raccontare i cambiamenti che stiamo vivendo. Perché, come ha scritto il musicista Francesco Bianconi, “la fine del mondo non avverrà con scoppi e cataclismi. Neanche con asteroidi, pestilenze, guerre mondiali, virus, terremoti. La fine del mondo innanzitutto non avverrà. Sta già accadendo”.
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