Come la finanza fossile sta rallentando la transizione energetica

Come la finanza fossile sta rallentando la transizione energetica

Come la finanza fossile sta rallentando la transizione energetica

Dalla firma dell’Accordo di Parigi si fa un gran parlare di “finanza verde”, e del ruolo delle banche come mezzo per far decollare la transizione energetica. Ma le cose stanno davvero così? 

 

Dai nostri articoli precedenti abbiamo capito che esiste un sistema produttivo che mira a mantenere l’economia impantanata tra i combustibili fossili: le entità che lo compongono cercano di distrarre l’attenzione del pubblico con iniziative verdi di facciata, mentre fanno ben poco per investire in una direzione davvero conveniente, sia dal punto di vista economico che umano e ambientale. 

 

Ma un sistema come questo non potrebbe esistere se non avesse fondi da cui attingere per i propri interessi fossili; se non disponesse, insomma, di liquidi per continuare a finanziare l’estrazione di carbone, oppure il mantenimento di imprese che senza un aiuto esterno sarebbero costrette ad adattarsi alle necessità ambientali o a chiudere. Per questo, vale la pena guardare a quella che potremmo definire “finanza fossile”, ossia l’insieme di iniziative bancarie che garantiscono la sopravvivenza del settore fossile, costituendo uno dei maggiori ostacoli alla transizione ecologica.

 

Il quadro generale

Secondo i dati disponibili, a partire dalla firma dell’Accordo di Parigi le 35 maggiori banche mondiali hanno aumentato i propri investimenti nel settore fossile, raggiungendo un totale di oltre 2700 miliardi di dollari. Se la questione climatica è davvero un’emergenza, come mai ci sono ancora tanti investimenti nelle compagnie fossili? Come mai i finanziamenti stanno anzi crescendo, da quattro anni a questa parte?

 

La risposta è semplice: le banche controllano l’andamento dei mercati mondiali, che in questo caso vede ancora in continuo aumento l’utilizzo dei combustibili fossili. Questo perché, per garantire lo sviluppo e il benessere della popolazione, gli Stati fanno ancora affidamento in maniera significativa su carbone, petrolio e gas; primi tra tutti i grandi Paesi in via di sviluppo (come Cina e India), che devono affrontare crescite economiche e demografiche rapide e molto importanti. Le banche avallano questa scelta, comprese quelle italiane: tra il 2016 e il 2019 Unicredit ha finanziato energia fossile con una media di 5.8 miliardi di dollari l’anno, mentre Intesa Sanpaolo con circa 3 miliardi.

Foto di Trevor Hammonds da FreeImages

Rifuggendo il rischio, i grandi istituti di credito sanno che quello dei fossili è un settore maturo, in cui il pericolo di perdere un investimento per motivi tecnici o politici è minimo, grazie al fatto che le tecnologie hanno ormai centinaia d’anni di sviluppo e le compagnie fossili sono tanto grandi da essere, a volte, più influenti di alcuni governi nel decidere politiche energetiche nazionali. Come entità private le banche rincorrono il profitto, rinunciando a utilizzare quel potere politico che gli permetterebbe di decidere (in alcuni casi anche più degli Stati) quali investimenti andrebbero portati avanti e quali no.

 

Chi deve guidare la transizione?

Ma questo potere, appunto, è politico, e come tale dovrebbe allora venire utilizzato dalle istituzioni nazionali e internazionali per compiere quello che i privati non sembrano essere intenzionati a fare. Insomma, sono i politici, come difensori e ricercatori del bene comune, a dover dire cosa è giusto o sbagliato fare in ambito di investimenti!

 

L’Unione Europea ha cominciato a farlo, approvando una lista indicativa di attività “sostenibili” (ovvero quelle attività economiche in grado di mitigare o adattarsi al cambiamento climatico) su cui basare i propri finanziamenti e rendendo i finanziamenti della Banca Europea per gli Investimenti dipendenti dagli effetti sull’ambiente delle attività dei richiedenti. Purtroppo, da un leader climatico mondiale ci si dovrebbe aspettare ancora di più: perché i criteri approvati sembrano ad oggi molto poco stringenti, e la Banca continua a promuovere modelli di investimento incentrati su grandi infrastrutture di trasporto che andrebbero forse riconsiderate (principalmente trasporto aereo e su gomma).

 

Inoltre, ad Aprile di quest’anno le istituzioni europee sono state al centro di un’accesa polemica su un altro punto importante: l’istituto di Vigilanza Bancaria Europeo, alla ricerca di consulenza sulla sostenibilità in ambito finanziario, ha deciso di rivolgersi a Blackrock, la più grande società di investimento mondiale, con interessi miliardari nella finanza fossile. Un atteggiamento a dir poco rischioso, che rischia di trasformare i controllati in controllori di sé stessi (e immaginiamo già i risultati).

 

Insomma, per fare davvero la differenza bisognerebbe indirizzare la finanza verso i bisogni di lungo termine della società: economia circolare, energia rinnovabile, sviluppo sostenibile. Per farlo in maniera efficace bisognerebbe forse cominciare a guardare al traguardo che abbiamo di fronte, piuttosto che al punto da cui partiamo. Il rischio, altrimenti, è di non raggiungere mai gli obiettivi di riduzione delle emissioni, ma anche di trovarsi di fronte a crisi finanziarie sempre più frequenti, causate dalle conseguenze dirette e indirette del cambiamento climatico. Pensiamo al Covid-19, e a come la riduzione delle emissioni abbia fatto crollare il prezzo del petrolio tra Marzo e Aprile; se diventasse più frequente, un evento del genere metterebbe in serio pericolo gli investimenti nel settore fossile. Ma allora, se anche gli investitori e le banche potrebbero rimetterci, perché non se ne occupano?

 

Una corsa a ostacoli

La verità è che anche le banche, così come gli individui, sono troppo concentrate sul profitto attuale per preoccuparsi di quello futuro. In un famoso discorso ai propri colleghi, il governor della Banca d’Inghilterra Mark Carney parlò proprio di questa “tragedia degli orizzonti”, cioè l’incapacità degli istituti finanziari di allargare l’orizzonte dei rischi a lungo termine per tenere conto dell’emergenza climatica. Come i politici, che per farsi rieleggere adottano politiche spendaccione sapendo che, vent’anni dopo, qualcun’altro dovrà risanare il debito creato, chi guida le banche punta a ottenere profitti più alti possibili (anche per garantirsi ricchezza individuale) senza pensare al futuro dell’organizzazione nel suo complesso.

 

Una tale mancanza di lungimiranza non è dovuta a mancanza di informazioni: le ricerche spiegano che il cambiamento climatico, se non affrontato, rischia di portare fino al triplo delle crisi finanziarie attuali, con tutto ciò che ne consegue. I dati a nostra disposizione forniscono chiare indicazioni sui settori italiani legati ai combustibili fossili (l’energia e l’agricoltura, prima di tutto, ma il peso dell’edilizia è in forte crescita), per cui gli istituti di credito sono in grado di giudicare adeguatamente i rischi dei propri investimenti a lungo termine; le rinnovabili si sono dimostrate più resistenti delle altre forme di energia ai crolli di investimento nel settore energetico dovuti al Covid, a testimonianza di una chiara convinzione che esse rappresentino la maggiore stabilità futura. 

Investimenti energetici per settore tra 2018 e 2020. Fonte: AIE

Tutto questo, purtroppo, non basta a far sterzare la finanza verso un futuro ecologico; le banche rimangono così concentrate sul profitto attuale, sullo spremere il massimo possibile da ogni investimento, godendo anche di un generale sentimento di impunità individuale e organizzativo (pensiamo al fenomeno dei “too big to fail”). Il risultato è, come sempre, che i costi dell’inazione si rovesciano sulla società, e soprattutto sui suoi componenti più deboli.

 

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**Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione di altre organizzazioni ad essa collegate**

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