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Filosofi in equilibrio fra le tempeste del clima

Filosofi in equilibrio fra le tempeste del clima

L’etica deve abbracciare l’incertezza di un dialogo costante fra molte voci per fronteggiare i nuovi dilemmi generati dal cambiamento climatico.

di Alessandro Cattini

illustrazione di Dada

 

“Non c’è un pianeta B!” gridano i manifestanti durante gli scioperi per il clima. Presentano così l’unicità della Terra come la ragione principale per cui è bene tutelarla. Il fatto che la Terra sia il solo posto dell’universo conosciuto dove possiamo sopravvivere, infatti, sembra a molti un motivo  sufficiente per sostenere che preservarla sia bene e distruggerla sia male. Perché, allora, è così difficile collaborare per salvare il pianeta?

In realtà, quando pensiamo al pianeta dove desideriamo vivere non tutti abbiamo in mente la stessa immagine. Qualcuno lo vorrebbe più industrializzato, tecnologico e civilizzato, altri più selvaggio e incontaminato. Alcuni sarebbero disposti a rinunciare a certi standard di vita, altri meno, pur pretendendo tutti un posto dove stare. In sostanza, pur guardando allo stesso obiettivo, lo facciamo di solito da prospettive differenti e non sempre sovrapponibili.

Ricercando solo il nostro bene individuale, tuttavia, finiremo per ostacolarci a vicenda, allontanandoci dal sentiero comune che ci permetterebbe di evitare l’estinzione. Perciò, da un paio di decenni, i filosofi hanno cominciato a chiedersi come bilanciare valori quali la solidarietà, la libertà, la vita delle generazioni future e la prosperità degli ecosistemi, che facilmente entrano in conflitto quando ci si deve accordare su come uscire insieme dalla crisi climatica. Da questa ricerca sono sorti nuovi dilemmi morali di cui si occupa una nuova disciplina filosofica.

 

L’etica del cambiamento climatico

L’etica del cambiamento climatico è quel ramo della filosofia che si interroga sulle motivazioni che possono spingerci a cooperare per preservare gli equilibri del clima. È parente stretta dell’etica ambientale, anche se le due non coincidono. L’etica ambientale, infatti, nata all’inizio degli anni Settanta, si pone domande specifiche sul valore degli individui, delle specie viventi non umane, e degli ecosistemi, considerando soprattutto se questi ultimi abbiano un valore intrinseco, e quindi un fine in sé, oppure strumentale, cioè solo in quanto mezzi utili per i nostri scopi.

 

L’approccio dell’etica del cambiamento climatico, invece, si distingue perché fa scaturire la  riflessione morale soprattutto da quanto la scienza ci insegna a proposito dell’impatto globale del fenomeno. Il cambiamento climatico è infatti una realtà che interessa tutto il pianeta nel suo insieme, a differenza delle azioni di violenza o inquinamento perpetrate a danno di singoli esseri viventi o sistemi ecologici circoscritti.

 

La responsabilità dell’essere umano nell’alterazione degli equilibri del clima ci pone perciò collettivamente nel ruolo di agenti morali capaci di influenzare ogni cosa, inclusa la vita di persone e specie viventi molto lontane da noi, insieme a quella dei nostri discendenti futuri. È un po’ come dire che il mondo intero è ora alla portata delle nostre decisioni quotidiane. Se insieme scegliamo di condurre una vita a basse emissioni di gas serra contribuiremo a creare un mondo ricco di opportunità; se non lo facciamo, questo mondo potrebbe facilmente scomparire per sempre.

 

Ma una vita a basse emissioni può prendere tante forme diverse. Quali sono quindi i valori da proteggere e quelli sacrificabili sul percorso verso il futuro del pianeta? La natura stessa del cambiamento climatico rende complicatissimo rispondere a questa domanda.

 

Iperoggetti che plasmano il mondo

Il cambiamento climatico è una di quelle cose che il filosofo Timothy Morton chiama “iperoggetti”, fenomeni ipercomplessi che mostrano come gli effetti di molte delle nostre piccole azioni quotidiane non siano più limitati nello spazio e nel tempo.

 

Non stupisce dunque che un altro filosofo, Dale Jamieson, definisca il cambiamento climatico come “world-constituting”, cioè capace di trasformare la costituzione stessa del mondo, modificando le condizioni di partenza del nostro modo di scegliere, di costruire la nostra identità, di conoscere la realtà (cfr. Byron Williston, “The ethics of climate change: an introduction”). Noi stessi abbiamo creato il cambiamento climatico, ma ora che lui trascina la realtà in un vortice in continuo mutamento siamo noi a perdere il controllo, scagliati, insieme alle nostre fragili bussole morali, verso un orizzonte di grande incertezza.

 

All’improvviso ci troviamo in un oceano sconosciuto, dove tutto è in relazione con tutto ed è difficile isolare semplici serie di cause ed effetti, perché ogni effetto retroagisce continuamente sulle cause, cambiando ogni volta il punto di partenza da cui dovrebbe procedere l’analisi. È quindi impossibile separare l’iperoggetto-cambiamento climatico dalle singole realtà che questo plasma e trasforma. Al contempo, ciascuna sua manifestazione non lo esaurisce mai, lasciandone sempre una parte nascosta e pronta a sorprenderci di nuovo.

 

Un uragano o una siccità, per esempio, possono essere una manifestazione lampante del cambiamento climatico, ma non sono “il” cambiamento climatico in sé e per sé, né sono sufficienti per conoscerlo approfonditamente. Essi sono solo onde che ci avvertono di una tempesta in arrivo: ogni onda ci comunica qualcosa di nuovo e importante sulla tempesta, eppure, se questa non fosse già in atto non potremmo avere la percezione del pericolo portato dalle singole onde. Dove dirigere, dunque, la nostra attenzione? Quali misure di breve, medio, lungo termine privilegiare? Quali onde si può cioè correre il rischio di cavalcare e di quali, invece, è meglio prevenire del tutto la formazione?

 

Salvare il pianeta… per chi?

In questo mare di incertezza è necessario individuare una strategia d’azione che sia giustificabile razionalmente sulla base di una costellazione di valori irrinunciabili, disposti saggiamente in equilibrio fra loro. Questa dovrà tenere conto degli interessi di almeno tre grandi “partiti”: quelli delle popolazioni più povere ed esposte ai danni climatici, quelli delle generazioni future e quelli della Terra stessa e delle altre specie viventi.

 

In altre parole, una strategia efficiente risponderà a domande quali: come ridurre l’impatto del cambiamento climatico sulle generazioni future senza condannare alla fame i poveri e gli emarginati della Terra? Come sostenere i Paesi in via di sviluppo senza che le sue conseguenze sulla natura aggravino ulteriormente gli squilibri climatici? Come redistribuire le risorse economiche senza privare la scienza della possibilità di investire in nuove tecnologie, che potrebbero essere utili in futuro per adattarsi a condizioni ambientali avverse non più reversibili? Come utilizzare la tecnologia per mitigare il riscaldamento globale, senza che questa danneggi le persone o altre parti della biosfera?

 

Un’etica per un mondo imperfetto

Il filosofo Stephen M. Gardiner ritiene che utilitarismo, etica deontologica, contrattualismo ed etica delle virtù, le più classiche delle teorie morali, siano impotenti, da sole, di fronte a questi quesiti. Per questa ragione l’etica del cambiamento climatico deve accogliere l’incertezza e procedere mettendo da parte l’ideale di perfezione formale, così come il bisogno di confutare ogni possibile obiezione. Solo in tal modo potrà essere aperta all’opportunità di trarre da ciascuna di queste teorie elementi utili per navigare i diversi dilemmi che si presenteranno.

 

Ciò, tuttavia, non significa che non debba seguire alcuna regola. Al contrario, in quanto molto più consapevole dell’irriducibile imperfezione del mondo, un approccio etico non-idealistico al problema del cambiamento climatico farà del dialogo e del confronto costante tra le diverse istanze in campo la propria stella polare.

 

Lungi dal difendere e consolidare a tutti i costi le proprie posizioni, ci si dovrà mettere in ascolto delle esperienze altrui, di chi è più lontano nello spazio e, perché no, nel tempo, immaginando anche le ragioni di chi vive o vivrà esperienze a noi del tutto sconosciute. Solo così, attraverso il confronto e il dialogo, si attiverà un’intelligenza collettiva in grado di cogliere ciò che individualmente è impossibile vedere. Un’intelligenza che, facendo luce nella notte alla maniera di una costellazione particolarmente luminosa, permetterà di fare vela finalmente verso una direzione comune. 

 

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