La fusione del permafrost: punto di non ritorno?
Cos’è il permafrost e cosa c’entra con il cambiamento climatico.
Illustrazione di Beatrice Maffei
Grafiche di Cecilia Brugnoli
Articolo di Cecilia Consalvo
DueGradi si è già occupato di punti di non ritorno (o tipping points) in un articolo del marzo 2020, nel quale l’autrice Stella Levantesi dice: “ogni punto di non ritorno rappresenta un passaggio irreversibile ad un mondo sempre più caldo, un mondo molto diverso dal precedente, in cui gli equilibri del vecchio lasciano il passo a qualcosa di completamente nuovo”.
Un tipping point quindi è un concetto utilizzato per identificare un limite oltre il quale una piccolissima e ulteriore perturbazione può alterare drasticamente lo stato di un determinato sistema. E purtroppo sono non poche le evidenze scientifiche che mostrano come le attuali emissioni antropiche di gas ad effetto serra abbiano il potenziale di spingere vari componenti del sistema terrestre oltre questo limite.
In uno studio pubblicato su PNAS (il Proceedings of the National Academy of Sciences, rivista scientifica statunitense ) si evidenzia come ben 15 componenti del sistema climatico potrebbero raggiungere il loro punto di non ritorno entro questo secolo a causa dei cambiamenti climatici antropogenici. In quest’articolo pubblicato su Nature, sono stati elencati quelli particolarmente a rischio: il ghiaccio marino artico, la calotta glaciale della Groenlandia, la foresta boreale, la calotta glaciale dell’Antartide Occidentale, il bacino di Wilkes nell’Antartide orientale, la circolazione termoalina atlantica (THC), le barriere coralline, la foresta Amazzonica e, dulcis in fundo, il permafrost.
In questo articolo, vi parliamo proprio di questo ultimo punto: il permafrost.
Cos’è il Permafrost?
Con il termine permafrost si intende quella parte di terreno (costituito da suolo, sedimenti, rocce e materiale organico) che rimane a una temperatura di 0°C o inferiore per almeno due anni consecutivi e tipicamente presente nelle regioni polari e in alta montagna. Generalmente, il permafrost è composto da tre livelli: lo strato attivo superficiale, soggetto a scongelamento durante l’estate e su cui cresce la vegetazione; il permafrost sempre gelato; lo yedoma, un permafrost formatosi durante il Pleistocene (all’incirca 10.000-2 milioni di anni fa), ricchissimo di materiale organico.
La prima vera e propria mappa che ha delineato le coordinate geografiche del permafrost è stata redatta dall’Associazione Internazionale del Permafrost (l’International Permafrost Association con l’acronimo IPA, in inglese), durante gli anni ‘90. Come cita la stessa IPA, la superficie del permafrost nell’emisfero nord è pari a circa 23 milioni di chilometri quadrati che, per intenderci, corrisponde approssimativamente alla superficie totale di Europa e Sud America assieme. Di questi, circa il 65 percento si trova in Eurasia e il restante 35 per cento in Nord America e Groenlandia.
Qui sotto la cartina (del 1998) indica con il viola scuro le zone in cui c’è una percentuale maggiore di terreno permanentemente congelato. Le tonalità più chiare di viola invece, con i termini “isolato” e “sporadico”, rappresentano una percentuale inferiore di terreno congelato.
Credit: Philippe Rekacewicz, UNEP/GRID-Arendal; data from International Permafrost Association, 1998
Come scrive il Centro Dati per la neve e ghiaccio dell’Università del Colorado, seppur la maggior parte del permafrost si trovi sulla terraferma, il permafrost è presente in grandi quantità anche nei fondali marini, sotto le piattaforme continentali artiche. In media, sempre secondo il sopracitato Centro Dati, lo spessore del permafrost varia da meno di 1 metro a più di 1.5 chilometri.
Perché costituisce un problema la sua fusione?
Secondo un rapporto dell’IPCC, le temperature della zona Artica dal 1980 ad oggi hanno raggiunto livelli record, portando ad un ampio disgelo del permafrost. Si prevede che entro il 2100 l’area dello strato attivo di permafrost (entro 3-4 metri) diminuirà del 24 +/- 16% per lo scenario RCP2.6 e del 60 +/- 20% per lo scenario più pessimistico RCP8.5.
Con l’aumento delle temperature, la materia organica, prima “perennemente” congelata dentro il permafrost, sta diventando disponibile per l‘attività di degradazione da parte di specifici microrganismi, che possono quindi trasformarla in CO2 e metano, vale a dire due potenti gas climalteranti.
E questo è una cosa non da poco se si considera il fatto che secondo l’IPCCC si stima che il permafrost possa trattenere all’incirca 1460-1600 gigatonnellate di carbonio organico. Giusto per darvi un’idea, questa quantità è pari a quasi il doppio del carbonio presente nelle molecole di CO2 attualmente in atmosfera. Dunque, non si fa fatica ad immaginare lo scenario (seppur un po’ apocalittico) nel quale tutto il permafrost si scongelasse. Come scrivono i ricercatori Mariasilvia Margellini e Antonello Provenzale in questo articolo, “le sostanze organiche intrappolate verrebbero completamente decomposte, e conseguentemente la concentrazione di CO2 in atmosfera triplicherebbe, con conseguenze drammatiche sul clima”.
A parte per l’ingente quantità di gas ad effetto serra che la fusione del permafrost potrebbe comportare, la comunità scientifica si sta particolarmente interessando a questo fenomeno perché potrebbe indurre un pericoloso circolo di retroazione climatica. Come abbiamo già visto in altri articoli duegradi, i circoli di retroazione climatica (o anche feedback climatici) sono delle complesse relazioni causa-effetto, in cui la causa scatenante di un determinato fenomeno può essere amplificata o meno dalle conseguenze che il fenomeno stesso induce.
E cosa c’entro questo con il permafrost? Come abbiamo visto sopra, l’incremento delle temperature sta determinando il disgelo di grandi porzioni del permafrost ogni anno. Questo significa che i processi di degradazione indotti dai microrganismi al suo interno comportano un rilascio in atmosfera di metano e CO2, intrappolati nel sottosuolo per secoli/millenni. Questo a sua volta induce un ulteriore aumento delle temperature globali e quindi, in ultimo, un maggiore scongelamento del permafrost, e così via: innescando così una pericolosa serie di reazioni a catena.
L’incertezza
La sfida su cui gli scienziati stanno attualmente lavorando è da un lato calcolare quanto effettivamente aumentano le emissioni di CO2 e metano a causa di questo ciclo di retroazione climatica e dall’altro quanto velocemente si possano avere effetti sia sul clima globale che sul fragile ecosistema dell’Artico e sulle popolazioni indigene che lo abitano. Ciò che sembra ancora difficile da quantificare in maniera precisa è proprio quale sia il punto di non ritorno del permafrost, vale a dire la condizione secondo la quale il feedback climatico sopra descritto si possa innescare e “mai fermare”.
Un articolo scientifico pubblicato sulla rivista Nature ha provato a fare chiarezza, sintetizzando le osservazioni in situ dei flussi di CO2 dei suoli artici, con l’obiettivo finale di dare delle stime sulle possibili perdite di gas ad effetto serra causate dalla fusione del permafrost. Secondo lo studio, attualmente il permafrost sta rilasciando 1,622 TgC all’anno, una quantità di carbonio superiore a quella mediamente assorbita dal permafrost durante la stagione di crescita: 1,032 TgC. Questo “semplice dato” ci mostra come (ahi noi) il permafrost potrebbe potenzialmente aver già superato il suo punto di non ritorno.
Nell’articolo, le stime dei flussi di carbonio vengono estese fino al 2100, e i risultati indicano che le emissioni invernali di CO2 dovute alla fusione
del permafrost aumenteranno del 17% nello scenario in cui le attuali emissioni antropiche vengano ridotte solo parzialmente (RCP4.5) e del 41% nello scenario di business as usual, quindi uno scenario di totale assenza di politiche di mitigazione delle attuali emissioni antropiche (RCP8.5).
Una collaborazione per la mitigazione: scienza e politica
L’IPCC fornisce e mette a disposizione studi basati su vari tipi di scenari, al fine di poter dare una panoramica completa del lavoro di mitigazione e adattamento necessario. E’ qui che scienza e politica si incontrano: le politiche di riduzione delle emissioni e di decarbonizzazione potrebbero essere basate su una valutazione puntuale delle emissioni “sufficienti” a determinare il superamento di uno o più punti di non ritorno, così da mitigare i possibili effetti o adattare i nostri modelli socio-economici ai nuovi equilibri che si verranno a creare.
Gli autori di questo studio pubblicato su Nature hanno provato a dare il loro contributo in questa direzione, sviluppando un modello grazie al quale quantificano il danno economico di una inazione politica in caso di superamento di 5 punti di non ritorno. I risultati mostrano che, considerando le scelte dei leader politici in condizioni di incertezza ( quella di adesso) , il costo sociale del carbonio aumenta di quasi otto volte, passando da 15 dollari per tonnellata di CO2 a 116 dollari per tonnellata di CO2. Inoltre, lo studio afferma anche che la conseguenza non è solo economica. Infatti, superare alcuni punti critici aumenta notevolmente la probabilità che si verifichino altri punti critici, innalzando ulteriormente il costo non solo economico ma anche sociale del carbonio.
Questo significa che c’è una crescente necessità di integrare dati scientifici nei processi di sviluppo e disegno delle politiche climatiche, soprattutto quando si parla di punti di equilibri climatici e terrestri. I dati e le evidenze scientifiche, se ben integrati in un disegno politico chiaro e realizzabile, renderebbero i decisori politici capaci sia di gestire il rischio sia di affrontare in modo adeguato ciò che non può essere più prevenuto.
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