Quale pianeta per chi non è ancora nato?

Quale pianeta per chi non è ancora nato?

La giustizia intergenerazionale tra senso di responsabilità e dubbi sul futuro di chi verrà dopo 

di Alessandro Cattini

Copertina di Dada

 

In un mondo globalizzato e interconnesso dove quasi ogni nostra scelta ha ricadute sull’intero pianeta, persino a distanza di molti anni nel futuro, che cosa significa agire moralmente? Come già visto in un precedente articolo, l’etica del cambiamento climatico è quella branca della filosofia che cerca di dare risposta a questa domanda. Suo scopo è mostrare quali sono le ragioni per cui azzerare le emissioni di gas serra è un bene, senza dimenticare che qualunque azione che persegua tale obiettivo esige sempre che qualcuno si sottoponga a sacrifici più o meno gravosi. Questi non si possono ignorare e vanno necessariamente confrontati con altri valori importanti, come ad esempio la dignità della persona, la libertà, l’integrità degli equilibri naturali.

 

È opinione comune che a pagare il prezzo più alto della transizione ecologica debba essere chi ha beneficiato maggiormente delle emissioni generate in passato, come i Paesi del Nord del mondo. Lo imporrebbero criteri di etica ambientale, di giustizia internazionale e intergenerazionale. 

 

Tuttavia, vista la gravità della situazione attuale, gli sforzi dei soli Paesi ricchi non saranno sufficienti a raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima: è necessario che tutti i Paesi collaborino insieme a questa impresa. Quali sono le basi etiche e filosofiche che giustificano questa affermazione? Esploreremo qui alcune delle principali motivazioni a favore di un percorso collettivo dell’umanità verso un futuro davvero sostenibile. Procedendo ci chiederemo: quali e quanti sacrifici è ragionevole esigere dalle diverse parti in gioco? Come far sì che siano efficaci ma al contempo sostenibili per tutti?

 

Giustizia intergenerazionale

Con questo articolo iniziamo prendendo in considerazione la questione delle future generazioni. Se la filosofia positivista ha sempre creduto nella capacità della tecnica di apportare infiniti miglioramenti nelle condizioni di vita dell’umanità, da qualche tempo questa visione ha cominciato a scricchiolare. L’ottimismo è stato ridimensionato e si fa strada l’idea che i nostri discendenti dovranno adeguarsi a standard di vita meno attraenti dei nostri per far fronte a cataclismi naturali e tensioni sociali sempre più violente.

 

Per prevenire le più catastrofiche conseguenze del cambiamento climatico sarebbe quindi necessario agire subito e con una lungimiranza superiore a quella che servirebbe per ridurne l’impatto durante il solo arco di vita delle generazioni presenti. Se potessero parlare, le generazioni future ci chiederebbero di fare molto più del minimo indispensabile e di intraprendere un eccezionale sforzo di mitigazione, anche se non ne godremmo mai i benefici. Il primo e ovvio problema, però, è che le generazioni future, non essendo ancora nate, non possono avviare con noi alcuna trattativa. 

 

I problemi del contrattualismo

A causa della radicale asimmetria nelle relazioni di potere tra le generazioni presenti e quelle future qualunque approccio etico di tipo contrattualistico alle questioni intergenerazionali è destinato a incontrare grandi difficoltà. 

 

Il contrattualismo prevede che la giustizia coincida con l’osservanza di un patto (reale o immaginario) cui le parti aderiscono consapevolmente per ottenere un vantaggio al prezzo di qualche rinuncia. Per esempio, in molti casi una persona benestante può riconoscere l’opportunità di aderire a un patto che le imponga alcuni sacrifici a maggior tutela dei più poveri, immaginando di poter venire a trovarsi un giorno, per caso o per sfortuna, nella medesima situazione di indigenza. Un patto che preveda qualche disuguaglianza di trattamento a vantaggio del più debole insomma, funziona anche per il più forte come un’assicurazione preventiva.

 

Nel caso delle generazioni presenti, tuttavia, non è possibile immaginare una situazione in cui possano trovarsi al posto di quelle future. È evidente che, per quanto ne sappiamo oggi, chi è nato in questo secolo non potrebbe mai trovarsi al posto di chi nascerà tra cinquecento anni. Se ragioniamo solo in termini egoistici, l’interesse delle generazioni presenti a compiere enormi sforzi di riduzione delle emissioni solo per poter permettere ai propri ipotetici e remoti discendenti di condurre, in futuro, una vita decente è molto limitato. 

 

La responsabilità come dovere

Per questi motivi alcuni filosofi a partire da Hans Jonas hanno adottato un approccio di tipo deontologico alle questioni di giustizia intergenerazionale, cioè basato sui concetti di dovere, responsabilità e non-reciprocità (a differenza del contrattualismo, che non può prescindere dalla relazione di reciprocità fra le parti). 

 

Per Jonas, che ha una visione metafisica del mondo di tipo finalistico, gli esseri umani hanno il dovere di esistere perché sarebbero gli unici a potersi prendere cura non solo di se stessi, ma anche delle altre specie viventi. Dal dovere di esistere delle future generazioni non può che scaturire quindi il dovere delle generazioni presenti di consegnare loro un pianeta abitabile, nel quale condurre una vita all’altezza della dignità umana. È proprio con questo che coincide il principio responsabilità, di cui Jonas parla in una delle sue opere più celebri. 

 

Questa visione potrà forse sembrare ingenua ed eccessivamente antropocentrica. Ma anche se l’umanità non avesse il dovere morale di esistere, è improbabile che le generazioni presenti smettano all’improvviso di esercitare il proprio diritto a procreare, se non altro perché la procreazione ha per la società numerose utilità pratiche. È ragionevole supporre che genereremo figli ancora per diverso tempo e che questi ultimi continueranno a fare lo stesso. L’approccio deontologico di Jonas, perciò, può contenere ancora qualche elemento interessante. Proprio i più giovani, d’altra parte, anello di collegamento fra la nostra generazione e quelle non ancora nate, ci richiamano oggi alle nostre responsabilità verso la Terra. 

 

Due strade

Di fronte a questo grido dei giovani nelle piazze si aprono due strade. Una è quella breve e diritta, sulla quale si risponde a problemi nuovi con soluzioni vecchie, aumentando ulteriormente le emissioni per migliorare la vita delle prossime generazioni nel breve periodo, e sperando che le cose poi evolvano diversamente, magari grazie all’invenzione di qualche nuova miracolosa tecnologia.

 

La seconda strada, invece, è quella più tortuosa e lunga, che consiste nel mettere in atto subito le più ambiziose azioni di mitigazione, evitando così alle future generazioni di entrare in un circolo vizioso dove per tamponare i danni sempre più pesanti del cambiamento climatico si sia costretti a ricorrere a soluzioni che non faranno altro che aggravarlo sempre più, dando adito a quella che Gardiner chiama con una metafora “corsa intergenerazionale agli armamenti”.

 

Persino se a un certo punto decidessimo che sia preferibile non esistere affatto piuttosto che farlo in un mondo flagellato dai cambiamenti climatici e smettessimo così di fare figli, per avere una conferma della bontà di questa decisione sarebbe necessario che qualcuno facesse esperienza di un tale mondo. Non possiamo prevedere, infatti, quali straordinarie capacità di adattamento svilupperanno i nostri discendenti, e sarebbe arrogante stabilire a priori che la loro vita non valga in assoluto la pena di essere vissuta. Il fatto che continuiamo a interrogarci riguardo al loro destino, d’altro canto, forse significa che non siamo ancora l’ultima generazione di esseri umani su questo pianeta. Il che implica che ci troviamo su una delle due strade sopracitate: su quale delle due per le generazioni future farà tutta la differenza del mondo.

 

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