Governo Draghi: cosa cambia per il clima?
Il 13 Febbraio è entrato in carica il nuovo governo italiano guidato da Mario Draghi. Cosa cambia nella politica climatica dell’Italia?
di Chiara Falduto e Federico Mascolo
Le promesse di Draghi
Su carta, sembrano esserci delle premesse positive.
Durante le sue prime settimane di mandato, Draghi ha messo il cambiamento climatico al centro dell’agenda di governo. Lo ha fatto con le parole già durante la prima riunione con i ministri, parlando esplicitamente di un governo “ambientalista”. Ma lo ha fatto anche incontrando, prima della formazione del governo, alcune associazioni ambientaliste italiane: Greenpeace Italia, Legambiente e WWF Italia. Si è trattato di un gesto simbolico ma importante, dal momento che era avvenuto una sola volta prima d’ora.
La centralità delle tematiche ambientali e climatiche è emersa anche durante il suo discorso al Senato del 17 Febbraio, quando ha elencato i punti salienti del suo programma al fine di ottenere la fiducia. Dal discorso sono emersi due spunti degni di nota.
Da un lato, le parole di Draghi sembrano voler rilanciare l’Italia come leader climatico negli eventi internazionali che quest’anno la vedranno protagonista, ovvero il G20 di Dicembre (di cui sarà Presidente) e la COP26, la conferenza internazionale sui cambiamenti climatici che l’Italia co-presiederà a Novembre assieme al Regno Unito.
D’altro canto, il neo-eletto Presidente del Consiglio ha sottolineato l’importanza di porre obiettivi climatici chiari e quantificabili: “Non basterà elencare progetti che si vogliono completare nei prossimi anni. Dovremo dire dove vogliamo arrivare nel 2026 e a cosa puntiamo per il 2030 e il 2050, anno in cui l’Unione Europea intende arrivare a zero emissioni nette di CO2 e gas climalteranti”.
Naturalmente, è ancora troppo presto per giudicare l’operato del nuovo governo. Le premesse ci sono, ma non vanno date per scontate: il governo raccoglie infatti la fiducia di partiti e gruppi politici molto diversi tra loro, con idee diverse anche in materia di azione climatica.
Due nuovi ministeri
Una prima novità sostanziale c’è già stata: con la nascita del nuovo governo sono stati istituiti due “nuovi” ministeri.
Il Ministero della Transizione Ecologica, o MiTE, di fatto sostituisce, potenziandolo, il vecchio Ministero dell’Ambiente. Oltre alle competenze in materia di ambiente e tutela del territorio, il MiTE si occuperà anche delle politiche energetiche dell’Italia, in precedenza di competenza del Ministero dello sviluppo economico. L’istituzione del MiTE è quindi un cambiamento non solo simbolico, vista la centralità del settore energetico all’interno della transizione ecologica: l’energia non è più (solo) vista come motore di sviluppo, ma come variabile da tenere in considerazione in un’ottica di sostenibilità ambientale.
La nomina a ministro di Roberto Cingolani lascia invece qualche punto interrogativo. Fisico di formazione, il neo-ministro ha un lungo passato da direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova e un passato più recente come responsabile tecnologia e innovazione di Leonardo, l’azienda partecipata dello Stato nota per la produzione di tecnologie ed equipaggiamenti militari. In particolare, desta perplessità l’inclinazione a considerare il gas fossile come “un male minore”, sul quale potenzialmente puntare nelle prime fasi della transizione ecologica – il che non ci permetterebbe di raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.
Il MiTE non è l’unica novità dicasteriale del governo Draghi. Cambia nome anche il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ribattezzato in Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile (MiMS). La nuova organizzazione potenzierà il Ministero, agevolando la progettazione di reti di trasporti sostenibili. A capo del MiMS Enrico Giovannini, ex portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile. Secondo Giovannini, “il cambio di nome corrisponde a una visione di sviluppo che ci allinea alle attuali politiche europee e ai principi del Next Generation EU”.
Di nuovo, è troppo presto per giudicare. Tuttavia, è positiva l’intenzione di istituire Ministeri in grado di integrare diversi aspetti della transizione ecologica in modo più strategico e coordinato.
Il “nuovo” Recovery Plan
La prima sfida del governo Draghi sarà di riscrivere, almeno in parte, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, conosciuto anche come Recovery plan italiano. Si tratta del piano che dovrebbe rilanciare l’economia italiana dopo la crisi economica causata dalla pandemia, nonché renderla più resiliente di fronte a potenziali crisi future – tra cui quella climatica.
L’ultima versione del Recovery plan, presentata dal precedente governo, prevedeva circa 223 miliardi di euro di investimenti, di cui poco più di un terzo (69,8 miliardi) esplicitamente dedicati alla “rivoluzione verde e transizione ecologica”. Si tratta di una cifra senza precedenti; basti pensare che, nel 2018, il governo italiano stanziò “solo” 9 miliardi per il reddito di cittadinanza. Ma il diavolo si nasconde nei dettagli e, in questo caso, su quali progetti e per quali riforme tali risorse – in gran parte provenienti dall’Unione Europea – verranno spese.
Questa versione del Piano era stata duramente criticata per la mancanza di una visione d’insieme e a lungo termine, necessaria per (ri)costruire un’Italia più verde. L’Unione Europea aveva invece mostrato delle perplessità circa la reale fattibilità di molte misure, difficilmente gestibili dal nostro inadeguato apparato amministrativo. Pur trattandosi di una versione non definitiva, al Piano mancavano anche informazioni concrete sull’impatto che ciascuno di questi investimenti dovrebbe avere in termini di emissioni di gas serra e risparmio energetico.
Spetta ora al governo Draghi rivedere il Piano. I fondi complessivi destinati alla transizione ecologica non dovrebbero subire sconvolgimenti sostanziali, quantomeno non in negativo, per rimanere in linea con i parametri stabiliti dalla Commissione Europea.
Lo scorso 10 marzo, il ministro Cingolani ha annunciato che il Recovery Plan stanzierà ben 80 miliardi per la decarbonizzazione, puntando ad una riduzione delle emissioni del 60% (contro il 55% fissato ad oggi) entro il 2030. Il piano dovrebbe puntare in maniera decisa su nuove tecnologie, come l’idrogeno verde e blu, e sulla decarbonizzazione dei settori ad alto impatto ambientale come quello dell’acciaio. Una visione abbastanza “positivista” della transizione energetica italiana, confermata anche dall’enfasi data alla fusione nucleare come futura fonte di energia e alle “negative emission technologies”, ovvero le tecnologie che rimuovono e sequestrano l’anidride carbonica dall’atmosfera.
Energia e sussidi fossili, le altre sfide da affrontare
Per assicurarsi che gli investimenti del Piano siano sfruttati a pieno, il nuovo governo italiano dovrà intervenire su almeno due fronti: una profonda trasformazione del settore energetico e una revisione del sistema fiscale in ottica ambientale.
Per rendere credibile la propria agenda climatica, il governo Draghi dovrà necessariamente aggiornare il il Piano nazionale integrato per energia e clima (Pniec), che definisce la strategia italiana per il settore energetico fino al 2030. Ad oggi, il Pniec non è in linea con nessuno degli obiettivi climatici internazionali, non prevede scenari per il raggiungimento della neutralità climatica europea e mette troppa enfasi su tecnologie e fonti energetiche cosiddette “di transizione” quali auto ibride e gas fossile.
Per revisione del sistema fiscale, intendiamo invece il complesso sistema di sussidi diretti e indiretti a favore dei combustibili fossili, che nel 2018 pesavano 17,7 miliardi di euro nel bilancio dello Stato italiano. Lo stesso anno, i sussidi a favore dell’ambiente erano circa 15,3 miliardi di euro. Secondo l’Ocse, i sussidi a favore di combustibili fossili sono uno dei principali ostacoli alla transizione energetica, nonché uno spreco di risorse. È inutile investire 70 miliardi in rivoluzione verde se il sistema fiscale continua a supportare l’infrastruttura fossile. Il nuovo governo dovrà quindi ridurli, se vuole riuscire a raggiungere gli obiettivi climatici europei. Se ne è parlato diverse volte negli ultimi anni, ma nessun governo ha poi agito di conseguenza.
Conclusione
Insomma, cosa cambia nella politica climatica dell’Italia? Alcune premesse ci sono, resta da vedere se il governo e la macchina italiana saranno in grado di mantenerle. Le prime indicazioni le avremo già a fine Aprile, quando l’Italia dovrà inviare alla Commissione Europea il proprio Recovery plan. La transizione ecologica italiana partirà da lì?
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