Il Climate Action Summit 2019: cosa è successo a New York
Pianeta Terra, Nuova York, settembre 2019. Siamo nel mezzo di una crisi climatica globale che avrà conseguenze disastrose sull’umanità. L’ONU organizza un vertice sul Clima, il Climate Action Summit 2019. Il suo Segretario Generale, António Guterres, prova a scolpire nell’inconscio collettivo tre comandamenti da seguire nei prossimi anni per cercare di contrastare il cambiamento climatico. In primo luogo, chiede ai paesi di tutto il mondo di smettere di costruire centrali elettriche a carbone entro il 2020, quindi entro dopodomani. Chiede, poi, di tagliare i sussidi ai combustibili fossili: sì, tuttora parte delle nostre tasse finisce in tasca ad aziende che producono carbone, petrolio e gas. In terzo luogo, propone un cambio paradigmatico nella gestione del gettito fiscale: tassare gli emettitori invece che le persone. Sapete quanto costa alla comunità un’azienda che inquina?
Ad alcuni queste idee sembrano poco, ad altri moltissimo; fatto sta che di tutte le proposte neanche la prima, la più fattibile, viene recepita favorevolmente. Nessun paese accoglie le mozioni al vertice ONU sul clima, e da questo si esce, sostanzialmente, con un nulla di fatto. Molti dei paesi intervenuti al vertice, già non proprio esempi di virtuosismo, non hanno offerto novità incoraggianti. L’India, la cui produzione energetica dipende per la stragrande maggioranza dalle centrali a carbone, e che ne ha pianificato un’ulteriore espansione nei prossimi anni, non ha arretrato di un centimetro – ha detto che aumenterà la percentuale di rinnovabili, non viene nemmeno da dire “si è salvata in corner”. Un discorso simile vale per gli interventi di Pakistan, Bangladesh e Kenya, tre paesi dove le aziende di stato cinesi stanno progettando centrali elettriche a carbone. La Cina, colpita da un rallentamento dell’economia, durante l’intervento non ha alzato per nulla l’asticella delle sue ambizioni, cosa che aveva invece fatto negli ultimi anni. Ha ben pensato, tuttavia, di ricordare al mondo che “alcuni paesi” non stanno mantenendo gli accordi di Parigi. Un riferimento per nulla velato al paese contro il quale stanno affrontando una guerra commerciale.
Secondo Donaldone, come sappiamo, il trattato di Parigi è “ingiusto”. E infatti mica ha voluto parlarci, al vertice. Non prevedeva nemmeno di presentarsi, ma poi, forse colto da un barlume di lucidità, ha fatto un giro di qualche minuto. Ma sì, sentiamo che dicono, tanto sono in zona – si sarà detto. Lo ha accolto calorosamente l’ex sindaco di New York Michel Bloomberg, che lo ha ringraziato della visita e si è detto speranzoso che “i dibattiti gli saranno utili il giorno che deciderà di formulare una politica sul clima”. America non pervenuta tra i paesi intervenuti al vertice, dunque, ma questo non è certo uno scoop. Ad onor del vero, si sono astenuti dal parlare pure altri grandi emettitori come Canada e Australia. Sostanzialmente, nessuno dei paesi che contano ha fatto nuove promesse per contrastare il cambiamento climatico.
Come è già capitato negli ultimi anni, i paesi più vulnerabili sono stati tra i primi a tirare la carretta. Nello specifico, i piccoli stati insulari – tra cui le Isole Marshall, Belize, Grenada, Santa Lucia e Vanuatu – si sono coalizzati con alcune economie sviluppate come Danimarca, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia e Svezia con l’obiettivo, entro il 2020, di elaborare strategie per raggiungere zero emissioni nette entro il 2050. Si tratta di azioni che portano con sé la forza dell’esempio ma parliamo, in termini percentuali di emissioni globali, di numeri molto bassi.
Appena prima delle conferenze sul clima si crea un hype che manco l’attesa dell’ultimo film di Tarantino (sul quale la redazione ha pareri discordanti). La parola magica è “promesse”. Ci si aspetta promesse da tutti i paesi. “Ti prometto che divento Climate Neutral entro quel dato anno”; “Dichiaro emergenza climatica,” magari. La parte difficile, poi, sta nel far seguire delle azioni repentine e paradigmatiche. Il problema è che durante questo Summit, sono arrivate a stento anche le promesse. Poca roba, decisamente. La Germania si impegna nel raggiungere la neutralità climatica nel 2050, il Pakistan pianterà 10 miliardi di alberi nei prossimi cinque anni, la Russia che finalmente ratifica l’Accordo di Parigi (pur non avendo la più pallida idea di ciò che poi vorrà realmente fare per diminuire le emissioni), il Regno Unito stanzia 11 miliardi e mezzo nella finanza climatica, Macron afferma di non voler fare accordi commerciali con i paesi contro l’Accordo di Parigi (Donaldone, again). è stato detto davvero molto poco rispetto a ciò che servirebbe per avere un approccio olistico ad una crisi sistemica.
Dal settore privato è arrivata qualche buona notizia. D’altro canto, adottare politiche volte al contrasto del cambiamento climatico è una mossa vincente, sia da un punto di vista reputazionale che di ritorno economico. L’amministratore delegato di Allianz, Oliver Bäte, ha così annunciato, assieme ad altri undici grandi investitori, la transizione di dell’intero portfolio di investimenti verso investimenti ad emissioni zero entro il 2050. Ancora, 87 aziende, con un impatto a livello di emissioni pari a quello di 73 centrali a carbone, si sono unite al “Global Compact,” l’iniziativa ONU nata per incoraggiare le aziende ad adottare politiche verdi. Lo scopo è allineare i loro business alla traiettoria necessaria per limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C. Un’altra proposta da monitorare è quella avanzata da diversi rappresentanti di vari settori tra cui quello marittimo, energetico e delle infrastrutture, tra cui Maersk, la più grande compagnia al mondo di navi mercantili, ed il colosso petrolifero Shell. La “Getting to Zero Coalition” si pone l’obiettivo di decarbonizzare il settore marittimo, a partire dall’introduzione sulle rotte commerciali di navi ad emissioni zero entro il 2030.
La direzione è corretta, ma non basta di fronte all’enormità della sfida che abbiamo davanti. Tutti – Stati, regioni, città, privati e via discorrendo – dovrebbe assumersi l’impegno di intervenire, in modo serio e concreto, con piani di riduzione delle proprie emissioni. Non possiamo quindi essere del tutto soddisfatti che 77 Paesi abbiano promesso di raggiungere le zero emissioni nette entro il 2050, perché dovrebbero cominciare ad elaborare il come, e perché dovrebbero farlo tutti, grandi emettitori in primis. Greta Thunberg è intervenuta con un discorso molto sentito che ha accusato tutti i politici. Rimane un divario enorme tra ciò che molti cittadini chiedono e quello che i politici promettono, ma è indubbio che il cambiamento climatico stia diventando prioritario nelle agende politiche di molti paesi. Non sappiamo ancora se basterà. Non ci resta che attendere le prossime due COP (COP25 in Cile e COP26 a Glasgow) per vedere a che punto è il mondo, e se possiamo davvero cominciare ad intravedere il momento in cui le emissioni globali smetteranno di aumentare.
Add a Comment