India meglio dell’Italia per il cambiamento climatico
Nel mare di informazioni contrastanti in cui nuotiamo ogni giorno, capire a che punto il nostro paese sia preparato o meno ad affrontare il cambiamento climatico non è semplice. Mentre alcuni sostengono che le leggi italiane in materia di clima siano poco ambiziose, altri le difendono vedendoci un primo tentativo di miglioramento, frutto di un compromesso tra tutti gli attori.
Esistono però alcuni metodi per calcolare la performance complessiva dei paesi, basandosi su criteri quali le emissioni, le politiche climatiche in atto, e così via. Uno di questi è l’Indice della Performance per il Cambiamento Climatico (CCPI), che ordina i paesi in base a quattro criteri: emissioni di gas serra, utilizzo di rinnovabili, efficienza energetica e politiche ambientali.
A che punto siamo in Italia? È presto detto. Per il 2019, il nostro paese si trova alla ventitreesima posizione su 56, tanto pochi sono i paesi che causano il 90% delle emissioni totali di gas serra. La performance viene descritta come media: dimostriamo buoni risultati soprattutto per quanto riguarda la riduzione delle emissioni e l’utilizzo delle rinnovabili all’interno del mix energetico – per dirla tutta, abbiamo già superato i nostri obiettivi al 2020. Anche la promessa italiana di abbandonare il carbone come fonte energetica entro il 2025 ha un peso rilevante nella valutazione. Allora perché, nonostante questi risultati, rimaniamo a metà classifica, e anzi abbiamo perso posizioni dall’anno scorso, in cui eravamo sedicesimi?
Nel contesto attuale, in cui l’emergenza climatica si fa sempre più pressante, fare lo stretto necessario non è più sufficiente; così, ogni anno, l’Italia viene superata da altre nazioni che, grazie alle iniziative intraprese, ambiscono al titolo di prime della classe. Non parliamo solo della Svezia, stabile da anni in vetta alla classifica: paesi come il Marocco, le Repubbliche Baltiche e l’India superano il nostro grazie a politiche più ambiziose e, ancor di più, alla messa in pratica delle promesse fatte.
Facciamo un paio di esempi: in Marocco è ormai attiva la più grande centrale ad energia solare concentrata al mondo; l’India pianifica di aumentare l’installazione di energia rinnovabile del 50% ogni anno, in una costante tendenza al rialzo. Per questi paesi abbracciare la causa dell’Accordo di Parigi è di primaria importanza, perché sono molto esposti a condizioni climatiche avverse. In altre parole, i rischi materiali cui sono sottoposti affrettano la messa in pratica di politiche coerenti ed incisive contro il cambiamento climatico. Il CCPI premia queste scelte ambiziose e pone i paesi che le fanno più in alto dell’Italia nella classifica.
Questo è, in effetti, uno dei punti dolenti riguardanti la nostra performance: l’intermittente politica di incentivi alle rinnovabili e l’incertezza sui regolamenti e gli investimenti energetici futuri (la TAP ne è un grande esempio) ci fanno perdere posizioni, così come l’implementazione dei trattati internazionali di cui facciamo parte. Ad esempio, all’Italia si rimprovera una scarsa proattività nel portare avanti la causa ambientale, perché, almeno fino ad ora, ci limitiamo a seguire le politiche europee. Insomma, alle parole devono seguire fatti, e fatti convincenti. Nel momento in cui le fonti energetiche fossili vengono ancora fortemente sovvenzionate – tramite esenzioni da tasse o veri e propri sussidi – è chiaro che dimostriamo, all’occhio degli osservatori, di essere come lo studente che sarebbe bravo, sì, ma non si applica.
Per chi pensa che quello della performance sul cambiamento climatico sia solamente un problema ambientale, è necessario ricordare che il clima globale ha anche conseguenze economiche ben chiare, nel bene e nel male; essere il paese che segue, invece che quello che traina il cambiamento, vuol dire rinunciare consapevolmente a una mole di investimento considerevole in vista del 2030 (ma anche oltre). Inoltre, l’inazione di oggi alzerà i costi dell’adattamento quando il paese si troverà sotto piogge improvvise e torrenziali o dovrà affrontare seri periodi di siccità. Un investimento oggi significa evitarne altri, molto più grandi, tra cinque, dieci o vent’anni anni, quando sarà necessario mettere in sicurezza interi paesi e affrontare eventi climatici straordinari. Del resto, si dice sempre che la prevenzione sia la miglior cura.
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