Ma è vero che nella letteratura non si parla di cambiamenti climatici?
La climate fiction per riscrivere il rapporto fra essere umano e natura
di Verdiana Fronza
Copertina di Beatrice Maffei
Comunicare il cambiamento climatico fra difficoltà e opportunità
Da qualche tempo ci si interroga su come parlare di cambiamento climatico, perché trattare un tema così complesso non è compito facile. O meglio, comunicare la crisi climatica in modo appropriato, sottolineandone l’urgenza e creando volontà di agire senza sfociare in un senso di impotenza e climate fatigue, è una sfida ben nota. Molti articoli, report e conferenze indagano sulle cause che impediscono un coinvolgimento maggiore del pubblico di fronte alle conseguenze disastrose della degradazione ambientale, e avanzano proposte per una comunicazione più efficace.
Per esempio, come spiegato dallo psicologo Per Espen Stoknes, molte difficoltà si annidano nel nostro modo di pensare: a livello cognitivo, i cambiamenti climatici sono percepiti come troppo distanti (da noi, nel tempo, nello spazio) e insormontabili, se non addirittura negati. Agire per contrastarli, inoltre, richiede uno scollamento dal nostro modo di produrre e consumare, dai nostri desideri e dalla nostra routine, sforzo che spesso non siamo disposti a fare. In questo modo, anche i dati scientifici sull’emergenza climatica possono diventare oggetto di discussioni politiche, andando a toccare la nostra identità sociopolitica e culturale e facendoci sentire attaccati e giudicati, generando così polarizzazione.
Di fronte a questi ostacoli, divulgatori e divulgatrici scientifici si interrogano su come raggiungere e coinvolgere il pubblico quando si parla di cambiamento climatico. Il report IPCC e Climate Outreach risponde evidenziando la necessità di creare un rapporto di fiducia con l’interlocutore, discutere temi cari a chi ascolta e su cui esiste consenso scientifico. In questo modo è possibile abbattere i muri identitari e parlare direttamente ai valori morali del pubblico. Riferirsi a esperienze comuni e geograficamente vicine aiuterebbe poi a colmare la distanza percepita dell’emergenza climatica, e permetterebbe così di contestualizzare il dato scientifico, forse troppo astratto rispetto al vissuto quotidiano.
Quella che sta emergendo, in maniera forse preponderante, è l’idea di narrare la crisi climatica raccontandola insieme alle storie di chi la vive, dandole un volto e collegandola ad avvenimenti locali. Si tratta di sfruttare il potenziale dello storytelling come strumento di comunicazione climatica, sia per parlare alla parte emozionale di chi ascolta, favorendo l’immedesimazione e la risposta empatica, che per veicolare conoscenza in maniera accessibile, comprensibile e d’impatto.
La letteratura per raccontare il cambiamento climatico
Fra le varie forme che abbiamo sviluppato per intessere una trama, il romanzo offre da secoli lo spazio per sperimentare scenari nuovi, ponderare domande difficili, discernere tematiche complicate, e, tramite la finzione, fungere da allegoria e metafora per realtà politiche, economiche, sociali e, sempre di più, ecologiche.
Se la crisi climatica ci richiede di ripensare al nostro posto nel mondo, riconoscendo le nostre responsabilità nella degradazione ambientale, e ci chiama all’azione domandandoci di immaginare un nuovo rapporto con il pianeta a livello sistemico e individuale, allora il romanzo offre l’opportunità per indagare queste questioni e testarne possibili soluzioni. Ma non solo. Tramite la letteratura possiamo informarci e vivere in prima persona fenomeni di cui di solito sentiamo parlare solo in modo scientifico, come il riscaldamento globale, e le loro conseguenze, come disastri “naturali”, conflitti, migrazioni.
Nonostante il potenziale del romanzo come mezzo per smuovere le coscienze sulla crisi climatica, ne “La grande cecità”, Amitav Ghosh denuncia l’assenza di una discussione sul cambiamento climatico nella letteratura, ancora troppa radicata su temi che mettono al centro l’essere umano e la sua interiorità per porre attenzione a tutto ciò che esiste là fuori, risultando cieca al “non-umano”. La crisi climatica, sebbene sia sfondo della realtà contemporanea, risulta troppo “esterna”, vasta e complessa da sviscerare e raccontare in letteratura. Per ora.
Storia della climate fiction…
Ma è vero che in letteratura non si parla di cambiamenti climatici? In realtà, già nel 2007 l’autore Dan Bloom conia il termine climate fiction, cli-fi, per riferirsi a romanzi che indagano cause e conseguenze del cambiamento climatico – termine riproposto nel 2012 da Margaret Atwood (che con la trilogia “MaddAddam” contribuisce al genere). E, come sottolinea Bruno Arpaia, anch’egli scrittore di climate fiction con il libro “Qualcosa, là fuori”, la narrazione del rapporto tra essere umano e natura e tra l’impatto antropologico sul clima e gli ecosistemi, non è cosa nuova: può essere infatti identificata addirittura nelle opere di Jules Verne.
Già nel 1962 viene pubblicato “Primavera silenziosa” di Rachel Carson, non un romanzo, ma certamente un testo cardine del dibattito ambientale, dove l’autrice riflette sul relazionarsi di umanità, natura, ed economia denunciando gli effetti nocivi per gli esseri viventi dell’esposizione ripetuta a insetticidi ed erbicidi. Nasce poi nel 1978 la corrente letteraria dell’ecocritica, che aveva il doppio obiettivo di esplicitare la relazione tra essere umano e natura esistente in letteratura, ricercando le cause storiche della crisi ecologica, e usare il testo per veicolare nel lettore coscienza e valori di protezione ambientale.
Ma è forse l’autore J. G. Ballard con il romanzo “Il mondo sommerso” (1962) a potersi considerare capostipite della cli-fi contemporanea, nonostante l’autore scrivesse in un’epoca antecedente al consenso scientifico sul riscaldamento globale. Nel libro Ballard presenta un futuro post-apocalittico in cui le intense radiazioni solari e il conseguente aumento della temperatura lasciano la maggior parte delle terre sommerse dall’acqua e, in questo scenario, approfondisce come gli esseri umani continuino a perseguire i propri sogni e desideri a discapito dell’ambiente esterno.
…e la sua contemporaneità
Varcate le soglie dell’Antropocene, in un contesto di crisi climatica ed ecologica sempre più vicina al punto di non ritorno, oltre ai libri del passato, ad oggi un numero crescente di romanzi affrontano e contestualizzano tematiche inerenti alle emergenze ambientali e sociali. In un recente articolo del Guardian è proprio Amitav Ghosh a richiamare l’attenzione a un boom di manoscritti affrontanti tematiche legate al cambiamento climatico a partire dal 2018, anche grazie alla pubblicazione ed enorme successo del romanzo di Richard Powers, “Il sussurro del mondo”.
Nel romanzo un coro d’alberi ci ricorda che:
“È questo il guaio con le persone, il problema delle loro radici. La vita scorre di fianco a loro, invisibile. Proprio lì, proprio accanto. Creando il terreno. Il ciclo dell’acqua. Negoziando sostanze nutrienti. Formando il clima. Costruendo l’atmosfera. Nutrendo e curando e riparando più specie di creature di quante le persone riescano a contare. […] Se la tua mente fosse una cosa un po’ più verde, ti sommergeremmo di significato.”
(Richard Powers, Il sussurro del mondo, 2019 La nave di Teseo editore, Milano)
Già nelle prime pagine de “Il sussurro del mondo” Powers fa quello che Ghosh auspicava nel 2017, donando spazio e voce, e quindi vita, al non-umano, ribaltando le prospettive e mettendo gli alberi al centro della scena, narratori attivi e punti fissi attorno a cui si dipanano le storie dei protagonisti.
Certo, la climate fiction non presenta una ricetta magica per la mobilitazione collettiva a favore dell’azione climatica. Quello che può fare, però, è sfruttare la tridimensionalità (ecologica, sociale, economica) e la sfaccettata complessità della crisi climatica a suo favore, per narrare gli effetti del cambiamento climatico sugli esseri umani, e viceversa, raccontando l’impatto umano sul clima e l’ambiente tramite molteplici spunti. Soprattutto, una narrazione ecologica come quella di Powers può aprire gli occhi a nuove prospettive, anche invitandoci a mettere in discussione il nostro antropocentrismo e permettendoci quindi, per qualche pagina, di staccarci dall’“io al centro di tutto” per guardarci da fuori e iniziare a prendere consapevolezza del rapporto fra essere umano e tutto ciò che umano non è.
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