1,5 o 2 gradi? Perché mezzo grado fa la differenza
I risultati mostrarono che un riscaldamento di 1,5°C sarebbe già sufficiente per innescare gravissimi impatti ambientali; con un aumento di 2°C tali effetti negativi sarebbero ancor più devastanti.
I due gradi centigradi hanno storicamente rappresentato un limite critico nel contesto del cambiamento climatico. In termini di aumento di temperatura media globale rispetto ai livelli pre-industriali, nell’immaginario collettivo i 2°C costituiscono il confine ultimo da non superare per evitare effetti disastrosi per il nostro Pianeta e per i nostri ecosistemi. Recenti studi, tuttavia, mostrano che un innalzamento delle temperature di 2°C sarebbe già sufficiente per trasformare la nostra Terra in un mondo irriconoscibile.
Per questo, negli ultimi mesi l’attenzione internazionale si è gradualmente spostata verso un obiettivo ben più ambizioso: cercare a tutti i costi di mantenere il riscaldamento globale al di sotto del grado e mezzo. Tali sforzi sarebbero in linea con l’obiettivo principale dell’accordo di Parigi – contenuto nell’articolo 2.1 – che chiede ai Paesi di mantenere l’aumento della temperatura media globale “ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l’azione volta a limitare tale aumento a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali”. A lungo ignorato, quell’1,5°C sembrerebbe ora destinato a dettare le politiche e gli sforzi di mitigazione dei prossimi anni.
Breve storia dei due gradi
Ma facciamo un passo indietro. Già nel 1975, l’economista Premio Nobel William Nordhaus intuì che un aumento della temperatura di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali avrebbe spinto i nostri ecosistemi ben al di là di quanto l’uomo avesse potuto osservare fino ad allora. Almeno per gli ultimi quindicimila anni, infatti, la variazione della temperatura media globale non aveva mai superato il grado centigrado. Fu forse a partire da questa prima intuizione che nei decenni successivi quello dei 2°C iniziò a essere usato come confine ultimo e invalicabile nel contesto delle politiche climatiche.
A livello internazionale, l’accordo di Copenhagen del 2009 per primo riconobbe la necessità di mantenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2°C. L’anno seguente, gli accordi di Cancun formalizzarono tale limite, impegnando i Paesi firmatari a “mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2°C al di sopra dei livelli preindustriali”. Nonostante il consenso politico ottenuto sui 2°C, negli anni successivi gli accordi di Cancun diverse voci del mondo scientifico richiesero un nuovo, più stringente obiettivo. Nuovi studi e scoperte scientifiche iniziano a destare i primi dubbi, ritenendo che un aumento della temperatura media globale di 2°C porterebbe già a di là del punto di non ritorno, oltre il quale gli equilibri naturali di molti ecosistemi sarebbero stravolti per centinaia di migliaia di anni.
Durante i preparativi per l’accordo di Parigi, dunque, il dibattito in merito a un nuovo obiettivo si fece più intenso. Furono soprattutto i paesi più vulnerabili agli impatti del cambiamento climatico e le piccole Isole-stato a chiedere a gran voce un aumento dell’ambizione globale – le possibili conseguenze di un aumento delle temperature di 2°C sarebbero state troppo importanti per poter essere sostenute dalle loro economie. Finalmente, nel 2015, un rapporto dell’UNFCCC stabilì che l’obiettivo concordato di 2°C non è sufficiente per prevenire pericolose interferenze antropogeniche con il sistema climatico, e che invece i governi dovrebbero puntare ad un aumento massimo di 1,5°C. Questa conclusione si rivela fondamentale durante le prime fasi di negoziazione dell’accordo di Parigi, portando infine alla formulazione del famoso articolo 2.1.
Mezzo grado fa la differenza?
La domanda sorge quasi spontanea:quanta differenza può fare mezzo grado di differenza a livello globale? Per rispondere definitivamente ad ogni dubbio, nel 2018 l’IPCC pubblicò un report speciale nel quale viene analizzata la differenza, in termini di impatti sui nostri ecosistemi, di un innalzamento delle temperature di 2°C rispetto a 1,5°C. I risultati mostrarono che un riscaldamento di 1,5°C sarebbe già sufficiente per innescare gravissimi impatti ambientali; con un aumento di 2°C tali effetti negativi sarebbero ancor più devastanti.
Tra i numerosissimi scenari studiati e presentati, le principale differenze citate nel rapporto includono un sostanziale impatto nei tassi di frequenza di ondate di caldo estremo, nella probabilità di avere un Polo Nord privo di ghiacci durante l’estate, nell’incremento del livello del mare o nel numero di specie animali e vegetali estinte a causa del cambiamento climatico. Ad esempio, con un riscaldamento di 1,5 ° C, il rapporto sostiene che con grande probabilità il Polo Nord andrà incontro ad almeno un’estate priva di ghiaccio ogni 100 anni. Con un aumento della temperatura media di mezzo grado in più (e quindi di 2°C totali), la probabilità aumenterebbe ad almeno un’estate ogni 10 anni, con gravi impatti sulla circolazione oceanica e conseguenze per il clima invernale nell’emisfero settentrionale. Ancora, il rapporto stima che già con un riscaldamento di 1,5°C, le barriere coralline diminuiranno almeno del 70-90%. Con un riscaldamento di 2°C, invece, sono previste perdite oltre il 99% della popolazione attuale di coralli.
Le conseguenze di un riscaldamento della temperatura di 2°C non danneggerebbero solo flora e fauna terrestre, ma sarebbero anche rovinose per la vita degli esseri umani, che fondamentalmente dipendono dai servizi che la Terra ci mette a disposizione. Secondo l’IPCC, ignorare l’obiettivo di 1,5°C e puntare ai 2°C metterebbe a rischio la vita di centinaia di migliaia di persone. Almeno 150 milioni di persone in più morirebbero a causa dell’inquinamento atmosferico in un mondo di 2°C più caldo – più del doppio delle vittime mietute dalla Seconda guerra mondiale. Forti variazioni nell’ambiente circostante causate da mezzo grado di riscaldamento in più costringerebbero almeno 200 milioni di persone a migrare verso zone meno a rischio, tra cui Europa e Stati Uniti. Sulla scia del report dell’IPCC, è stato stimato che ogni innalzamento della temperatura media globale di 1°C costerebbe agli Stati Uniti circa l’1% del proprio PIL. Con un riscaldamento di 1,5°C il mondo perderebbe 20 trilioni in meno rispetto ad un mondo di 2°C.
Un grado e mezzo: obiettivo ancora realizzabile?
Mezzo grado in più potrebbe davvero fare la differenza e cambiare radicalmente il mondo per come lo conosciamo. Per riuscire ad assicurarsi quel mezzo grado di riscaldamento in meno gli sforzi da compiere sono titanici, ma ancora possibili se agiamo con estrema rapidità. Secondo la scienza, per limitare l’aumento della temperatura media globale a 1,5 ° C, dovremo riuscire a ridurre le emissioni globali annuali di CO2 a 25-30 GtCO2e entro il 2030; circa la metà rispetto ai livelli del 2010. Il mondo è attualmente in rotta per emettere più del doppio, arrivando a 52-58 GtCO2e entro il 2030.
Ne abbiamo già parlato: sono pochissimi i Paesi che ad oggi hanno comunicato impegni sufficienti per riuscire a limitare l’innalzamento delle temperature a 1,5°C. Nonostante le poco promettenti azioni passate, numerosi Paesi si stanno impegnando per cercare di aumentare i propri sforzi di mitigazione nei prossimi anni. Da Settembre 2019, almeno 126 Paesi supportano il raggiungimento delle zero emissioni nette di CO2 (neutralità del carbonio) entro il 2050 — quanto dichiarato necessario dall’IPCC per riuscire a centrare l’agognato obiettivo 1,5°C. Certo, la finestra temporale a nostra disposizione si sta riducendo a vista d’occhio. La COP26, prevista a Glasgow nel Novembre 2020 segna forse l’ultima deadline utile per capire se un mondo di solo un grado e mezzo più caldo sia veramente possibile.
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**Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione di altre organizzazioni ad essa collegate**
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