Niente panico: qualcosa (di piccolo) puoi fare
Abbiamo bisogno di una nuova etica per fare i conti con il cambiamento climatico?
Articolo di Viola Ducati
Illustrazione di Viola Madau
Avvertenza: in questo articolo non troverai un decalogo di buone azioni per lavarti la coscienza e sedare un po’ la tua ansia climatica. Niente consigli pratici, niente rimedi della nonna o delle Giovani Marmotte. Parleremo invece del sistema Terra, di macrocosmo e microcosmo, e del perché ci serva meno macroetica e più microetica. Rileggendo Bruno Latour, Ilya Prigogine e Isabelle Stengers.
Noi, (ennesima?) generazione no future
Dimenticàti i Sex Pistols – Don’t be told what you want, don’t be told what you need, there’s no future, no future for you (God Save the Queen, 1977) – e gli slogan dei movimenti punk degli anni Ottanta, una nuova generazione senza futuro si aggira per l’Europa e per il mondo. Ansia, smarrimento, senso di colpa, rabbia e paura del collasso, non sono prerogative degli attivisti di Extinction Rebellion o Ultima Generazione: stando ai risultati delle prime ricerche su vasta scala, a livello globale quasi la metà dei giovani soffre in gradi diversi di ecoansia.
Il futuro appare sbarrato o addirittura negato. La possibilità di agire e di essere soggetti attivi, capaci di ottenere gli effetti voluti con la propria azione, è impedita. In questo sistema-mondo sempre più complesso, astratto e problematico, diventa difficile trovare il proprio posto e il proprio ruolo. Prevale il panico, in tutti i sensi: la visione del tutto – il sentimento panico – si trasforma in terrore. Come uscirne, ammesso che sia possibile?
Affrontare la questione un po’ meno di petto può aiutare. Proviamo a seguire un percorso curvo, laterale, lasciando da parte i saperi umanistici – in apparenza i primi a dover essere chiamati in causa – e dirigiamoci invece in direzione delle scienze dure. La storia delle scienze degli ultimi cento anni ha infatti molto da dire su di noi e sul nostro posto nel mondo.
La Terra trema
Con il Novecento, lo sappiamo, è morto Dio. Ma sono morte anche le scienze esatte così come erano state intese fino a quel momento. La teoria della relatività generale di Einstein e la meccanica quantistica sviluppata da Heisenberg e Schrödinger tolgono di mezzo la possibilità di predire con esattezza ciò che accade a livello microscopico. In modo simile, gli sviluppi della termodinamica, riconoscendo alla natura un’attività intrinseca che tende a sfuggire al controllo umano, mostrano che le strade su cui cammina la natura non possono essere previste con tutta certezza.
Scrivono Ilya Prigogine – Premio Nobel per la chimica nel 1977 per la sua teoria delle strutture dissipative – e Isabelle Stengers, nel loro classico La nuova alleanza (1967):
“La parte giocata […] da un accidente è irriducibile […]. La natura che si biforca è quella in cui differenze piccole, fluttuazioni insignificanti, possono, se si danno circostanze opportune, espandersi in tutto il sistema e produrre nuove funzioni, un nuovo comportamento globale”.
La reversibilità e il determinismo sono l’eccezione, non la regola. La realtà fisica fuoriesce dagli assi nei quali l’aveva costretta Cartesio. Soprattutto: non è più solo res extensa, pura estensione inanimata, ma soggetto capace di agire, reagire e retroagire agli stimoli con meccanismi di feedback. Grazie agli studi pionieristici in termodinamica, infatti, viene gradualmente chiarito che in natura i sistemi chiusi sono solo un’astrazione o casi particolari, mentre a prevalere sono i sistemi aperti, che scambiano energia, materia e informazione con i sistemi in relazione e che, grazie a questo scambio, possono trovarsi in evoluzione.
È questo il nocciolo dirompente della teoria delle strutture dissipative di Prigogine: il mondo è nel suo complesso ben lontano dall’equilibrio, e proprio per questo esistono lo specifico e l’unico, al di là del ripetitivo e dell’universale. Insomma, come scrivono Prigogine e Stengers nell’opera già citata, grazie alle scoperte novecentesche “la nostra scienza è infine diventata una scienza fisica che ha dovuto ammettere l’autonomia delle cose e non solo delle cose viventi”.
Se a questo quadro aggiungiamo le successive scoperte di geochimici come Charles David Keeling o di climatologi come Michael E. Mann, che hanno contribuito a dimostrare l’origine antropica del riscaldamento globale, la frittata antropocenica è bell’e servita. Altro che pura estensione inerte: la Terra è diventata “un involucro attivo, locale, limitato, sensibile, fragile, tremante e facile all’ira”, per usare le parole di Bruno Latour (La sfida di Gaia, 2015).
Siamo di fronte a una vera e propria seconda rivoluzione galileiana: la Terra non solo si muove, ma si commuove. Da oggetto sullo sfondo delle azioni umane, la realtà fisica diventa soggetto che interagisce e reagisce agli stimoli cui è sottoposta. Scrive Michel Serres ne Il contratto naturale (1990):
“La scienza ha conquistato tutti i diritti, da tre secoli a questa parte, appellandosi alla Terra, che rispose muovendosi. Allora il profeta divenne re. A nostra volta, noi facciamo appello a un’istanza assente, quando esclamiamo, come Galileo ma davanti al tribunale dei suoi successori, ex profeti divenuti re: la Terra si commuove! Si muove la Terra immemoriale, fissa delle nostre condizioni o fondazioni vitali, la Terra fondamentale trema”.
La Terra trema perché si trasforma ad opera nostra. L’Antropocene è una rivoluzione con un’immediata connotazione etica: ci troviamo su un pianeta vivo – l’Ipotesi di Gaia di James Lovelock è paradigmatica – dove scopriamo di essere un agente tra i tanti, ma capace di impatti enormi e difficilmente prevedibili.
Come si riconfigurano l’etica e l’antropologia alla luce di questa nuova visione scientifica del mondo? Chi siamo noi, e soprattutto quale spazio d’azione ci rimane? Quali aspettative possiamo nutrire, e quali idee di progresso, sviluppo e crescita possiamo coltivare?
La limitazione è liberazione
Proviamo a fare il punto. (i) Siamo responsabili del cambiamento climatico. Le nostre colpe ci paralizzano. Al tempo stesso, (ii) stiamo rimparando che la Terra è viva, che le agency in gioco sono plurali, intrecciate e profondamente interdipendenti. L’intenzionalità si frammenta; la dimensione della certezza vacilla; lo schema soggetto-azione-oggetto a cui siamo abituati – il gatto mangia il topo, la base della nostra logica – non funziona più. Per descrivere la realtà abbiamo bisogno di nuove parole chiave: relazione, retroazione, simbiosi, cooperazione, e così via.
Anche per agire, allora, abbiamo bisogno di nuove modalità. Se la storia delle scienze degli ultimi cento anni ci ha insegnato a guardare al microcosmo per capire i processi vitali – e in definitiva, anche per capire di più del macrocosmo stesso – anche noi, con le nostre azioni, abbiamo bisogno di uno sforzo di localizzazione, ridimensionamento e connessione. Gli scienziati sono tornati sulla Terra; è tempo anche per noi di cercare “nuove maniere di situarci in modo diverso nello stesso luogo”, come direbbe Anna Tsing.
Il nucleo di questa nuova microetica terrestre, terrigna, concreta e finalmente materiale, allora, è la limitazione, perché scoprirci in relazione significa riconoscere la nostra interdipendenza e appartenenza al contesto in cui ci situiamo. Scrive Bruno Latour in uno dei suoi ultimi saggi, Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia (2021): “Ci sono legami che liberano: più l’individuo è dipendente, meno è libero; più la persona è dipendente, maggiore è il suo margine d’azione”. La relazione è limite, perché segnala dipendenza, non-autonomia e parzialità, ma è anche la radice di un modo di agire più sintonizzato con il pianeta. A patto di sganciarci dal mito moderno dell’individualità e accogliere forme più collaborative di esistenza.
Conclusione: per superare il panico che immobilizza o porta alla fuga, ma anche per uscire dal paradosso del “movimento senza azione” di cui parla Leonardo Caffo (Il bosco interiore. Vita e filosofia a partire da Thoreau, 2015) – tipico delle nostre società tanto ipercinetiche quanto ottundenti -, pensarsi monadi senza porte né finestre non è la scelta vincente. Scrive ancora Latour:
“L’individuo ridotto a quasi niente si sente evidentemente privo di forze davanti all’immensità di ciò che lo domina; la persona, l’actor-network, l’attore-rete, l’attante-popolo […] si sente spuntare le ali con il moltiplicarsi degli elementi della sua lista”.
Forse il motto di questa nuova etica lo ha sintetizzato al meglio Edward Morgan Forster nel suo romanzo Casa Howard (1910): “Nient’altro che connettere”!
Duegradi vive anche grazie al contributo di sostenitori e sostenitrici. Sostieni anche tu l’informazione indipendente e di qualità sulla crisi climatica, resa in un linguaggio accessibile. Avrai contenuti extra ed entrerai in una community che parteciperà alla stesura del piano editoriale.
Add a Comment