I nuovi obiettivi internazionali per il clima sono ancora insufficienti
Gli impegni del 2005 – se rispettati – porterebbero ad un innalzamento della temperatura globale di 3,2° gradi
Il cambiamento climatico era al primo punto della lunga agenda dell’ultimo Forum economico mondiale (World Economic Forum), tenutosi dal 21 al 24 gennaio 2020 a Davos, in Svizzera. Negli ultimi cinquant’anni il Forum ha annualmente riunito le più importanti personalità della scena politica ed economica globale, al fine di discutere tematiche urgenti che necessitano di una risposta internazionale.
Dal titolo Stakeholders for a Cohesive and Sustainable World (“Attori interessati a rendere il mondo un posto coeso e sostenibile”), il Forum 2020 si è posto l’obiettivo di discutere azioni concrete per fermare il cambiamento climatico e la crisi ambientale. Azioni che devono essere intraprese da tutte le parti interessate (stakeholders), ovvero Paesi, aziende, industrie e anche la società civile. Il Forum economico mondiale è solo uno dei tanti esempi di conferenze internazionali organizzate negli ultimi mesi per parlare del tema dell’anno: l’implementazione (ovvero la messa in pratica) dell’accordo di Parigi.
Le emissioni in continua crescita e i deludenti risultati della COP25 rendono più chiaro che mai l’enorme divario che si frappone tra le promesse politiche e la pratica: i tagli alle emissioni globali di CO2 non si stanno concretizzando e la temperatura globale continua ad aumentare. Il 2020, da questo punto di vista, rappresenta probabilmente l’ultimo anno utile per permettere ai Paesi di aumentare drasticamente le proprie ambizioni per il clima. Da un lato, per l’obbligo da parte di tutti i Paesi firmatari dell’accordo di Parigi di comunicare nuovi obiettivi di mitigazione ed adattamento al cambiamento climatico; dall’altro, per i continui appelli del Segretario Generale delle Nazioni Unite che implorano la partecipazione del settore privato nell’azione climatica. Ma c’è la motivazione per fare meglio?
Nuove e vecchie promesse
L’accordo di Parigi mette a disposizione un importante strumento per aiutare i Paesi a programmare le proprie azioni di mitigazione, volte a implementare l’accordo e dunque a limitare l’innalzamento della temperatura a 1,5°C: i Nationally Determined Contributions (Contributi determinati a livello nazionale, NDC). Negli NDC, i Paesi includono obiettivi nazionali di mitigazione ed adattamento al cambiamento climatico da raggiungere nel breve o medio periodo (ovvero 5-10 anni). La preparazione degli NDC è obbligatoria per tutti i Paesi firmatari dell’accordo di Parigi, e ogni NDC deve essere rinnovato ogni cinque anni. Il primo ciclo di NDC, che presenta le azioni nazionali da intraprendere nel periodo 2020 – 2025/30, è stato completato nel 2015. Entro la fine del 2020, i Paesi dovranno comunicare un secondo NDC, con obiettivi per il periodo 2025-2030/35.
Il primo ciclo di NDC si è rivelato decisamente deludente sin dall’inizio. Nonostante la spinta politica dello storico accordo di Parigi, gli obiettivi proposti dai Paesi si sono rivelati non sufficienti per riuscire a limitare l’innalzamento della temperatura media globale a 2°C, né, tantomeno, a 1,5°C. Ammesso che vengano rispettati, gli impegni presi nel 2015 risulterebbero in un aumento della temperatura di 3,2°C entro la fine del secolo. Verrebbe persino difficile puntare il dito contro i fautori di questo ciclo di impegni davvero mal riuscito. Infatti, secondo il Climate Action Tracker, nessun Paese ha fatto un ottimo (“ideale”) lavoro.
Gli impegni di Unione Europea, Canada ed Australia, ad esempio, sono stati ritenuti inadeguati per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Gli impegni di Stati Uniti e Russia sono addirittura gravemente inadeguati. Il Marocco è tra i pochissimi paesi ad aver comunicato un primo NDC compatibile con un aumento della temperature di soli 1,5°C. Pur plaudendo gli incredibili sforzi marocchini, non dovremmo dirci soddisfatti, considerando che le emissioni del Marocco rappresentano solo lo 0,16% delle emissioni globali di gas serra, mentre quelle di Unione Europea, Canada, Australia, Stati Uniti e Cina messi insieme, il 48%.
Secondo l’ultimo Emissions Gap Report del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), le emissioni di gas serra da tagliare per riuscire a limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C sono ancora tantissime. Gli impegni dei primi NDC sono riusciti a correggere di poco la traiettoria di gas serra che si sarebbe realizzata nel caso in cui fossimo rimasti fermi alle politiche del 2005. Se volessimo rimanere sotto il grado e mezzo, dovremmo riuscire a sbarazzarci di 32 Giga tonnellate entro il 2030: quasi il 50% in meno rispetto ad oggi. Supportati dai numerosissimi report e studi scientifici usciti nell’ultimo anno e mezzo, i Paesi dovrebbero adesso avere ben chiari i tagli alle emissioni necessari per riuscire a raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Tuttavia, le azioni stentano ad arrivare.
Ad oggi, solo tre paesi (Suriname, Isole Marshall e Norvegia) hanno presentato un nuovo NDC. Tutti e tre gli NDC sono più ambiziosi rispetto ai loro predecessori. La Norvegia, ad esempio, punterà adesso a raggiungere il 55% di riduzione delle emissioni entro il 2030, mostrando di avere tutte le carte in regola per riuscire ad essere in linea con gli obiettivi dell’accordo. Anche altri Paesi, tra cui Cile, Moldavia e Mongolia sono già impegnati nella preparazione di un nuovo NDC, atteso nelle prossime settimane.
Nonostante i rincuoranti sforzi del solito club virtuoso, da oltreoceano giungono notizie alquanto allarmanti. Incuranti degli allarmi lanciati dalla comunità scientifica, Giappone, USA e Australia (che insieme rappresentano il 19% delle emissioni annuali globali di CO2), hanno lasciato trapelare che non intenderanno aumentare l’ambizione del loro nuovi NDC. Nel 2020 il Giappone probabilmente si limiterà a riconfermare il proprio target attuale del 26% di riduzione delle emissioni entro il 2030, mentre gli Stati Uniti guidati da Trump si affretteranno per uscire dall’accordo di Parigi, svincolandosi così dall’obbligo di presentare un nuovo obiettivo.
Non basta l’ambizione
Resta da vedere fino a che punto le promesse e gli obiettivi posti fino ad ora verranno rispettati. Nonostante alcune promettenti notizie (come il Green Deal Europeo o i target per la neutralità climatica intrapresi da numerosi paesi negli ultimi mesi), le incongruenze a livello nazionale ed internazionale sono ancora troppo evidenti. A Davos, a parlare di cambiamento climatico, c’erano anche banche ed investitori che dal 2015 al 2018 hanno finanziato l’industria dei combustibili fossili per 1,4 trilioni di dollari – l’equivalente di quanto posseduto dal 50% più povero della popolazione mondiale. Non solo, numerosissimi Paesi rappresentati al Forum economico mondiale hanno in cantiere ingenti finanziamenti per centrali a carbone, il combustibile fossile più pericoloso per il clima, e hanno sussidiato i combustibili fossili per un totale di 5,2 triliardi nel solo 2017, equivalenti al 6,5% del PIL mondiale.
È dunque giusto fare il tifo per chi si sta impegnando per il clima. È giusto sostenere gli sforzi dei Paesi e delle aziende che nel 2020 intendono presentare ambiziosi obiettivi. È giusto organizzare conferenze mondiali che permettano a Paesi e altre parti interessate di confrontarsi, di pensare insieme ad una strategia collettiva che ci porti rapidamente in salvo dai terribili effetti del cambiamento climatico. Però, anche se volessimo avere fede negli esempi virtuosi, è giunto il momento di puntare il dito contro chi canta fuori dal coro.
Perché conferenze sul clima in cui Paesi e investitori che ancora finanziano il fossile si nascondono dietro vaghe promesse, non sono più credibili, e l’ambizione non basta. Il 2020 dovrebbe rappresentare il punto di svolta, affinché le conferenze sul clima con investitori e Paesi che si nascondono dietro vaghe promesse, diventino solo un ricordo del primo ventennio di questo nuovo millennio. D’ora in poi servirà la responsabilità di tutti gli attori coinvolti, o le temperature si alzeranno ben presto oltre il punto di non ritorno.
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**Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione di altre organizzazioni ad essa collegate**
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