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Dovremmo iniziare ad avere seriamente paura del riscaldamento globale

Dovremmo iniziare ad avere seriamente paura del riscaldamento globale

Gli scienziati del clima ci ripetono da vari decenni che bisogna agire per contrastare la crisi climatica. Il senso di emergenza, però, non ci ha spinto a fare molto. Le ragioni di questa inerzia, oltre che dalla classe politica e dal sistema economico, dipendono anche dal fatto che ci consideriamo animali eccessivamente razionali.

in copertina: Francisco Goya – Los Disparates (1864) – No. 12 – “Disparate alegre”

di Sebastiano Santoro

 La prima volta che posso dire di aver toccato con mano la crisi climatica è stata in El Salvador, in America Centrale. Nel 2018 ho partecipato a un progetto di volontariato nel dipartimento di Morazán, nell’oriente del paese. Sono arrivato nel mese di ottobre, quando la stagione delle piogge volgeva al termine. Il paesaggio che mi ha accolto era rigoglioso, florido, lussureggiante; un colore, e le sue sfumature, si imponevano su tutti gli altri: il verde. Quando sono andato via – sette mesi dopo – era cambiato tutto. Le montagne erano diventate brulle e aride; le piante rinsecchite, in alcuni punti completamente scomparse.

 

Per motivi geografici, sociali ed economici, l’America Centrale è una delle regioni del pianeta più colpite dalla crisi climatica. Gli studiosi hanno ribattezzato Corredor seco il territorio che va dallo stato messicano Chiapas alla parte occidentale di Panama. A causa del peggioramento del fenomeno meteorologico El Niño, negli ultimi decenni questa striscia di terra si è trasformata in un luogo arido e sterile, colpito da ondate di calore estremo e periodi di siccità più lunghi del normale: un grave problema per chi vi abita, che per il 60% sopravvive esclusivamente coltivando mais e fagioli.

 

Ricordo che davanti a quello spettacolo desolante, quelle montagne spoglie e rachitiche, ho provato una strana sensazione, difficile da inquadrare. Qualcosa di molto simile alla paura.

 

Francisco Goya – Los Disparates (1864) – No. 13 – “Modo de volar”

 

Chi ha paura del riscaldamento globale?

Ma era davvero paura quella? Lo scrittore indiano Amitav Ghosh avrebbe risposto di no. O meglio, non proprio. Nel suo saggio La grande cecità, Ghosh usa una parola inglese per indicare la sensazione di mistero e inquietudine che lui stesso ha provato trovandosi di fronte a un tornado: uncanny, che in italiano potrebbe essere tradotta con ‘perturbante’. Il termine è usato da Ghosh per indicare una sensazione che nasce da qualcosa a cui abbiamo voltato le spalle: la presenza intorno a noi di interlocutori non-umani.

 

Qualche mese fa Bompiani ha pubblicato L’altro mondo di Fabio Deotto, un libro a metà tra un reportage narrativo che racconta i luoghi già stravolti dalla crisi climatica, e una carrellata di alcuni meccanismi mentali che ci impediscono di vedere e reagire a tutto questo. Nel libro è riportata una teoria dello psicologo Daniel Gilbert che potrebbe rispondere alla domanda che ha aperto questo paragrafo: chi ha paura del riscaldamento globale?

 

Gilbert sostiene che il cambiamento climatico sia una minaccia che i nostri cervelli non sono adatti ad affrontare. Il motivo è che nel corso dell’evoluzione ci siamo allenati a rispondere solamente ad alcuni tipi di minacce. Gilbert ne individua quattro tipologie, riassunte con l’acronimo PAIN (Personal, Abrupt, Immoral, Now). In pratica, ci spaventiamo solo quando la minaccia che dobbiamo affrontare è personale, cioè ci interessa direttamente e può essere ricollegata all’iniziativa di un’entità specifica; improvvisa, ovvero quando presuppone un cambiamento repentino; immorale, dunque quando è intesa come qualcosa di indecente o disgustoso; e attuale, ossia quando interessa il presente o l’immediato futuro.

 

Francisco Goya – Los Disparates (1864) – No. 10 – El caballo raptor

 

Il riscaldamento globale non soddisfa nessuna di queste caratteristiche. Non lo possiamo imputare a intenzionalità umane (nonostante i maggiori responsabili siano proprio esseri umani in carne e ossa); è un fenomeno lento e non misurabile con la durata di una vita di un essere umano (è iniziato con lo sviluppo dell’era industriale e mostrerà i suoi effetti peggiori nei secoli futuri); è estremamente difficile considerarlo immorale (perché altrimenti dovremmo considerare immorale tutto quello che facciamo); e, infine, facciamo fatica a ritenerlo una minaccia attuale.

 

Insomma, sebbene esso influisca sulla nostra psicologia (alcuni studiosi hanno coniato il termine-ombrello di ‘ansia climatica’ per giustificare il sentimento condiviso di preoccupazione verso il futuro a causa del cambiamento climatico), è come se non ci sentissimo spinti ad agire in prima persona. Come se la crisi climatica fosse un “qualcosa” di troppo grande, troppo diffuso, sprovvisto di tutte quelle qualità che l’evoluzione ci ha insegnato a riconoscere, e a cui reagire in un lampo.

 

Come se, appunto, non avessimo abbastanza paura.

 

Anche se questa emozione  – provare paura – gode di una cattiva fama, secondo la psicologa Anna Ferraris, è in realtà qualcosa di benefico. Ferraris la definisce «emozione primaria» perché utile alla sopravvivenza fin dalla nascita. Il suo compito principale è quello di allertare l’organismo per prepararlo a mettersi in salvo, attaccare o reagire. Di generazione in generazione, la capacità di riconoscere i pericoli ha fatto e fa tuttora parte del corredo comportamentale degli animali umani e non umani. Come ha scritto lo psicologo John Bowlby in Attaccamento e perdita, la mancanza di tale capacità, e non la sua presenza, può essere considerata patologica.

 

Ovviamente, però, la paura è un’arma a doppio taglio: può spingere ad agire, sì, ma può anche paralizzare. Essa dipende tanto da condizioni oggettive, quanto soggettive degli individui. Ma chi l’ha studiata, continua la psicologa Ferraris nel suo libro Psicologia della paura, sa che non sono sufficienti segnali allarmanti o eventi catastrofici per trasformare la paura in paralisi: tant’è vero che durante terremoti, alluvioni e altre catastrofi sono sempre numerosi coloro che riescono a mantenersi lucidi. Per lasciarsi travolgere dal panico, invece, ci si deve sentire psicologicamente isolati e al di fuori di un contesto di significati cui poter fare riferimento.

 

Francisco Goya – Los Disparates (1864) – No. 17 – La lealtad

 

Limiti cognitivi

Almeno dagli anni settanta la scienza ha iniziato ad avvisarci del pericoloso impatto delle emissioni di gas serra sul clima della Terra. Nonostante ciò, negli ultimi 30 anni la quantità di gas serra rilasciati in atmosfera è aumentata vertiginosamente. Spesso siamo portati a pensare che sia tutta colpa dei politici, delle grandi corporazioni fossili e delle loro campagne negazioniste. Questo è vero, ma tale motivo spiega solo in parte perché gli avvertimenti degli scienziati del clima non producano nella maggioranza delle persone alcun senso di emergenza e un agire conseguente.

 

Proviamo allora a guardarci di nuovo l’ombelico.

Niccolò Porcelluzzi e Matteo de Giuli, nel loro recente Medusa, dedicato ai modi con cui l’uomo sta affrontando la crisi climatica, citano un saggio dello psicologo Per Espen Stoknes con un titolo che sembra quasi uno scioglilingua: What We Think About When We Try Not to Think About Global Warming. Scioglilingua a parte, il libro di Stoknes è interessante perché riassume in cinque gruppi le barriere cognitive che offuscano la mente umana quando deve considerare la pericolosità del riscaldamento globale.

 

La distanza. Il cambiamento climatico è percepito come qualcosa di ancora lontano da molti di noi; lontano in senso spaziale (succede altrove), temporale (sarà significativo solo in futuro) e sociale (riguarda altre persone).

 

La condotta. La crisi ecologica è raccontata come una catastrofe invincibile, e poiché siamo una specie vivente avversa al lutto, facciamo di tutto per evitare l’argomento. È come se il messaggio catastrofico si ritorcesse contro di noi: abbiamo sentito così tante volte che «la fine del mondo è vicina» che ormai non ci facciamo più caso.

 

La dissonanza. Quello che sappiamo sul riscaldamento globale (bruciare combustibili fossili contribuisce ad aumentare la temperatura del pianeta) entra in conflitto con quello che siamo obbligati a fare ogni giorno (guidare per andare a lavoro, accendere la stufa quando fa freddo etc.). Per poter vivere con più agio la nostra vita tendiamo a sottovalutare cose di cui ci sentiamo responsabili.

 

La negazione. Neghiamo, ignoriamo o evitiamo di riconoscere dati indiscutibili sulla crisi climatica perché cerchiamo semplicemente una scappatoia dalla paura e dal senso di colpa che proviamo sentendo il nostro stile di vita minacciato.

 

L’identità. Davanti ai dati scientifici non dovrebbero esserci interpretazioni. Questo è vero. Ma è altrettanto vero che le informazioni che riceviamo vengono filtrate dalla nostra identità personale e culturale. Si capisce che su un tema che riguarda tutti, e che quindi tocca sensibilità e interessi differenti, gruppi politici, grandi corporazioni, attivisti e intellettuali si polarizzano attorno a idee e teorie molto spesso diversissime tra loro. L’appartenenza culturale, quindi, si sovrascrive ai fatti.

 

 

Francisco Goya – Los Disparates (1864) – No. 03 – Disparate ridículo

 

Apologia delle emozioni

Il punto è che, ormai, l’uomo non può essere considerato un animale del tutto razionale. Il premio Nobel Daniel Kahneman, nel suo Pensieri lenti e veloci, ha scritto che il nostro cervello è praticamente diviso in due: una parte antica dove risiedono istinto ed emozioni, e un’altra più analitica. Quando prendiamo decisioni la prima parte ad entrare in funzione è sempre quella ancestrale ed emozionale. Quando poi entra in gioco la ragione, capita spesso che questa non fa altro che giustificare razionalmente una scelta che, in fondo, abbiamo già preso istintivamente.

 

La conoscenza analitica dei meccanismi economici e storici che hanno causato la crisi climatica (ammesso che fossimo capaci di conoscerli tutti) non è sufficiente da sola a farci trovare delle soluzioni al problema. Per fare un esempio concreto, basta confrontare l’enorme impatto mediatico raggiunto in soli tre anni da Greta Thunberg con quello debole di decenni di divulgazione climatica da parte della comunità scientifica.

 

Francisco Goya – Los Disparates (1877) – Disparate puntual

 

In un dossier pubblicato su Mind, la psicologa climatica Janna Hoppmann snocciola una serie di consigli per chi lavora nella divulgazione dell’emergenza ecologica. Tra questi c’è quello di usare storie personali, perché sono più toccanti dei freddi numeri. Citare in concreto società, persone e paesi colpiti (proprio come El Salvador) aiuta a empatizzare meglio, e a ridurre la distanza tra noi e la crisi climatica. Insomma, l’attenzione per l’ambiente nasce razionalmente, con la conoscenza analitica, ma si alimenta con le nostre emozioni.

 

Per affrontare l’emergenza climatica abbiamo dunque bisogno di costruire un nuovo immaginario che possa raccontare il clima che cambia, gli iperoggetti, la complessità della scienza e il rapporto tra uomo e natura. Ma come si costruisce un immaginario? Di solito funziona così: nasce un’idea, prende forma, piace alla gente, comincia a circolare tra le persone, viene usata da scienziati, scrittori, filosofi, economisti, e pian piano, forse perché più adatta di altre a sopravvivere, diventa un archetipo condiviso dall’inconscio collettivo. Per far acquisire forza aerodinamica alle idee, le verità scientifiche, da sole, non bastano. Sfruttare eticamente le potenzialità delle emozioni, sia quelle tradizionalmente negative – come senso di colpa, paura e rabbia – che quelle positive -, come la speranza, – può essere una risorsa preziosa. 

 

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