Percezione del rischio

Sulla percezione del rischio, in tempo di crisi

Sulla percezione del rischio, in tempo di crisi

Come valutiamo il pericolo, quando si tratta di prendere un aereo, evitare di propagare il covid-19 o reagire ad una crisi climatica.

disegno di Daniela Goffredo

Come funziona la percezione del rischio

Vi è mai capitato di sentire il battito un filino accelerato in fase di atterraggio o di decollo? Vi è mai venuta un po’ di paura quando su un volo aereo una perturbazione vi ha fatto sentire le farfalle nello stomaco che neanche il vostro primo amore? Ma al volante della vostra auto, vi succede lo stesso? E guidando il motorino?

 

La probabilità di essere coinvolti in un incidente stradale è di gran lunga più alta di quella di trovarsi vittime di un disastro aereo. Eppure, nel nostro immaginario un incidente aereo fa molta più paura. Questo perché abbiamo una diversa percezione del rischio legata alle due attività,  definita come l’idea soggettiva che le persone sviluppano intorno al grado di pericolosità e alle caratteristiche di un rischio.

 

La nostra avversione rispetto al rischio non dipende solo dalla reale minaccia che esso comporta, ma anche da diversi fattori che influenzano la percezione del pericolo. Siamo soliti valutare il rischio che ci accada qualcosa sulla base della nostra esperienza e della facilità di immaginarci un possibile scenario in cui quell’evento accade. A incidere sulla percezione soggettiva del rischio non è poi da sottovalutare anche l’innato rapporto con esso: esistono, infatti, persone che amano il rischio e sono disposte a mettere in gioco se stessi e i propri averi in cambio di un probabile beneficio, e altre che preferiscono scelte e comportamenti più sicuri, caratterizzati da minor incertezza. Da un lato abbiamo i giocatori amanti delle scommesse o gli imprenditori, dall’altro troviamo chi sceglie di avere un lavoro dipendente e non sprecherebbe neanche un euro per comprare un gratta-e-vinci. Un po’ come chi esce prendendo l’ombrello anche a Luglio e chi si trova con i sandali in mezzo a un acquazzone. 

 

Esistono altre condizioni utili per comprendere cosa si intende per percezione del rischio. In  primis, la capacità individuale di agire sulla propria esposizione al rischio: se l’aereo mi fa paura, posso decidere di non prenderlo e, se ho dubbi sulla tenuta della corda di bungee jumping, posso decidere di non saltare. Inoltre, un ruolo importante è giocato dalla fiducia in chi il rischio è tenuto a limitarlo: il pilota di un aereo di cui siamo passeggeri o le istituzioni durante una crisi economica. Oltre alla competenza di chi lo gestisce, anche la familiarità con un problema ci dà sicurezza (e il contrario ci infonde instabilità).

 

Infatti, la comprensione del problema dal punto di vista tecnico incide sulla nostra percezione: meno comprendo, più il rischio mi è alieno e più mi spaventa. Non ci sono numeri e statistiche che tengano: se il rischio non viene comunicato in modo semplice ed esaustivo, chi non ha gli strumenti per capire le valutazioni tecniche, deciderà semplicemente di ignorarle, per quanto affidabili. Infine, si aggiunga alla lista il periodo temporale su cui il rischio si sviluppa. Basti pensare al rischio di morire da un momento all’altro, che si spalma su tutti gli anni di vita che abbiamo davanti, soprattutto da giovani. Solo le persone molto avverse al rischio vivranno i loro vent’anni con la paura costante di morire, ma più si cresce e si invecchia, più viene naturale iniziare a pensare a come tutelare la propria salute attivamente.

 

Perché parlarne qui e ora?

Oggi più che mai possiamo sentirci uniti da una sensazione di incertezza per ciò che sta accadendo in Italia e nel mondo a causa del Covid-19. La nostra percezione del rischio è cresciuta rapidamente, insieme alle prime informazioni riguardanti l’entità delle conseguenze, le modalità di trasmissione e il pericolo connesso alla pandemia, così come anche la nostra avversione al rischio è aumentata. Nel corso di poche settimane ci siamo trovati di fronte alla minaccia di un virus da affrontare per la prima volta e con strumenti imperfetti, senza poter esercitare il minimo controllo sulla fonte del pericolo se non smettere di condurre la vita che fino a poco prima ci dava un senso di sicurezza e di normalità. 

 

Eppure, sebbene il coronavirus sia un pericolo che si declina perfettamente come un rischio da temere, ci sono altre minacce, non meno pericolose, che non hanno innescato lo stesso tipo di reazioni: tra tutte, la crisi climatica.

 

Ma la crisi climatica cosa c’entra con il coronavirus? C’entra eccome! Per costruire un ponte in tema di percezione del rischio tra coronavirus e crisi climatica, prendiamo in prestito alcuni concetti da una materia nota come la psicologia dei disastri: in particolare, lo spazio temporale in cui il rischio si estende, la sua stessa natura e la consapevolezza delle conseguenze. Vediamo di seguito come applicarli. 

 

A differenza del coronavirus, che si propaga in tempistiche brevi e ha una definizione semplice da capire, il cambiamento climatico si sviluppa su una scala temporale più lunga e ha una natura più complessa. Inoltre, mentre il coronavirus, sebbene invisibile, ha avuto come conseguenza indiretta lo stravolgimento della nostra quotidianità e lo svuotamento di intere città e spazi pubblici, le conseguenze della crisi climatica sono per i Paesi sviluppati spesso ancora impercettibili; tale scollamento tra cambiamenti climatici e loro conseguenze influisce sulla percezione del rischio connessa. Infine, mentre il coronavirus richiede con prepotenza uno sforzo immediato e, ci illude, di breve termine, il cambiamento climatico domanda azioni radicali e permanenti, i cui effetti si potranno registrare solo in un futuro di lungo termine.

 

Anche il senso di urgenza dunque è percepito diversamente. Ancor più importante è lo stretto legame tra una pandemia e il rischio di morte, rispetto a un fenomeno complesso come il cambiamento climatico, di cui spesso si ignorano le conseguenze sulla qualità della vita e sulla probabilità di morte delle persone. Tra il 1999 e il 2018, quasi cinquecentomila persone sono morte a causa di fenomeni metereologici estremi collegati al cambiamento climatico. Secondo la WHO, i cambiamenti climatici nei prossimi anni saranno concausa di oltre 150.000 morti l’anno. E solo in Italia, secondo l’AEA, le morti premature collegate all’inquinamento dell’aria, uno dei danni collaterali più conosciuti e comuni dei combustibili fossili, arrivano a oltre 76.000 all’anno.

 

I dati non parlano da soli

Ma questi dati evidentemente non bastano, o non sono stati comunicati abbastanza efficacemente. Infatti, per scatenare una reazione, parlare di dati reali con un approccio razionale sembra non attirare l’attenzione necessaria. Lo abbiamo visto con la comunicazione mediatica sul coronavirus in questi mesi e le stazioni di Milano prese d’assalto: la percezione del rischio è un fenomeno complesso e una sua corretta valutazione non si ferma di fronte a proporzioni corrette, grafici precisi o raziocinio. 

 

Del resto, non ci dimentichiamo mai di allacciare la cintura in aereo o di spegnere la connettività del telefono – sia mai ci sia qualche interferenza con la torre di controllo – ma creare enormi quantità di rifiuti non riciclabili, spostarci in auto costantemente, sprecare acqua corrente sotto la doccia o mangiare carne prodotta in allevamenti intensivi sembrano abitudini su cui non ci interroghiamo troppo. Che rischio comportano, in fondo? 

 

Ma è anche vero che una volta percepito il rischio di una pandemia mondiale, siamo riusciti a stravolgere le nostre vite e ci siamo adattati in fretta a stare a casa, a utilizzare guanti e mascherine per fare la spesa, a mantenere la distanza di sicurezza con le persone. La differenza sembra risiedere in una diversa interiorizzazione del rischio stesso. Come abbiamo fatto per il coronavirus, una volta compreso il reale rischio che accompagna la crisi climatica contemporanea, applicheremo forse la stessa forza di volontà e potremo adattarci ad un cambiamento radicale delle nostre abitudini. O, almeno, questo è ciò che crediamo a duegradi.

 

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