Quando il cambiamento climatico bussa alla porta degli indigeni
di Benedetta Mantoan
Se dicessimo che il cambiamento climatico ha degli effetti devastanti sugli ecosistemi umani e naturali probabilmente nessuno ne rimarrebbe sorpreso. Tuttavia, spesso trascuriamo il fatto che questo fenomeno non colpisca tutti con la stessa intensità, e che il suo impatto sia maggiore nei contesti sociali più fragili, come le comunità indigene. Ebbene sì, le popolazioni indigene sono tra le più colpite dalle conseguenze del cambiamento climatico, nonostante la loro produzione di gas serra e il loro intervento sull’ambiente siano minimi. Allo stesso tempo, costituiscono un’inestimabile fonte di conoscenza per attutirne gli effetti.
Chi sono gli “indigeni”?
Detti anche nativi, o aborigeni, i “popoli indigeni” sono considerati i primi abitanti di una regione, cosa che li differenzia da altri gruppi che hanno occupato o colonizzato la stessa area in tempi più recenti. Nel 2016, 370 milioni di persone (5% della popolazione mondiale) si sono identificati come appartenenti ad una popolazione indigena. I gruppi più numerosi vivono nel Sud America (come i Quechua in Bolivia), in Africa (dai Tuareg dell’Algeria ai Maasai della Tanzania), in Russia (parliamo di almeno 50 milioni di persone), senza contare gli aborigeni Australiani e gli innumerevoli gruppi indigeni abitanti le isole degli arcipelaghi dell’Oceania, come i Samoa o i Maori.
In sostanza, troviamo popolazioni indigene ovunque ci sia stato un popolo colonizzatore, spesso Europeo. Proprio perché considerate “diverse” dalla cultura occidentale, queste popolazioni sono oggetto di discriminazione di tipo sociale e politico da parte dei governi degli stati che abitano. Il primo strumento che riconosce ai nativi il diritto alla difesa della loro cultura e il diritto alla proprietà delle terre natie, la Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni, è stata pubblicata dalle Nazioni Unite solo nel 2007.
Gli effetti del cambiamento climatico sulle popolazioni indigene
In termini generali, il cambiamento climatico tende ad avere un impatto più grave su delle situazioni già fragili, e quindi più “sensibili” ad un ulteriore peggioramento. Lo stile di vita dei gruppi nativi rappresenta una di queste situazioni di fragilità, principalmente per due ragioni: in primo luogo, le popolazioni indigene sono appartenenti alla fasce più povere, condizione che li porta ad avere ridotte opportunità educative, sanitarie ed economiche. Inoltre, la discriminazione sociale e l’indifferenza verso i loro diritti e bisogni da parte dei governi locali creano spesso una barriera che impedisce loro di essere rappresentati negli organi politici e di prendere parte allo sviluppo del paese. A tutto ciò si aggiunge il cambiamento climatico: la loro precarietà economica è ancor di più inasprita dalle conseguenze di eventi meteorologici estremi, come la perdita del raccolto a causa della siccità o un’alluvione particolarmente violenta.
Cosa vuol dire questo? Pensiamo a qualche esempio che ci aiuti a capire come questi abitanti della terra soffrano a causa del clima.
Prendiamo un aereo e voliamo nell’Artico, in Groenlandia e sulle coste nord-orientali del Canada: questa è la casa degli Inuit. Gli Inuit sopravvivono al clima Artico basando la propria economia sull’allevamento delle renne, sulla caccia di balene, foche e orsi, ma soprattutto sulla pesca. Queste attività sono molto importanti sia per mantenere le loro tradizioni sia per definire il proprio ruolo all’interno della comunità. Ad esempio, esistono vari tipi di cacciatori, ognuno specializzato su un tipo di animale diverso. Che siano di foche o balene, tutti i cacciatori imparano l’importanza di provvedere alla comunità attraverso il proprio servizio, procurando il cibo. Per questo motivo gli anziani hanno il compito di tramandare ai giovani i mestieri che definiscono la loro identità.
Purtroppo, lo scioglimento dei ghiacci al Polo Nord e l’instabilità meteorologica, dovuti ad un innalzamento delle temperature che ai Poli è ben al di sopra della media globale, hanno dato una svolta drastica alla loro quotidianità. Innanzitutto nella loro capacità di movimento: alcune popolazioni Inuit sono solite spostarsi anche di molti chilometri durante il giorno per cacciare, pescare o per seguire la migrazione delle renne, usando motoslitte o slitte trainate da cani, con le quali attraversano laghi e fiumi ghiacciati. L’innalzamento delle temperature ha portato ad un assottigliamento dello strato superficiale di ghiaccio, e di conseguenza gli spostamenti sono sempre meno sicuri ed aumenta il rischio di annegare. Inoltre, anche le zone di caccia saranno soggette a continui cambiamenti, dal momento che gli animali saranno costretti a deviare il percorso migratorio per aggirare i “nuovi” ostacoli naturali. In breve, per il popolo Inuit lo scioglimento dei ghiacci è una vera minaccia alla propria identità e alla propria sicurezza alimentare.
Senza toglierci la giacca voliamo sulla penisola scandinava, dagli allevatori di renne Sami di Finlandia, Russia, Norvegia e Svezia. Questo gruppo indigeno conta circa 75000 persone ed il lo stile di vita è caratterizzato da spostamenti semi-nomadi che seguono la migrazione stagionale delle renne, simile alla nostra transumanza. Come il popolo Inuit, anche i pastori Sami si trovano a fare i conti con delle condizioni climatiche sempre meno prevedibili. I pastori più anziani delle loro comunità hanno testimoniato negli ultimi dieci anni un susseguirsi di inverni non comuni: la stagione mite arriva in anticipo e gli sbalzi di temperatura sono sempre più frequenti, il che si traduce in pesanti perdite economiche. Le temperature instabili fanno sciogliere la neve ma, prima che sparisca del tutto, la congelano nuovamente, creando così uno strato di ghiaccio che rende inaccessibile la principale fonte di nutrimento delle renne: i licheni. Senza i licheni, per gli animali aumenta il rischio di morte, a causa della denutrizione o del cibarsi di tipo di vegetazione al quale non sono abituati. Si è tentato di elaborare delle soluzioni, come il nutrimento delle renne con il foraggio o con mangimi, che però comportano delle difficoltà in termini di denaro e salute degli animali.
Questi due esempi sono solo la punta dell’iceberg di quanto il cambiamento climatico possa influenzare lo stile di vita delle popolazioni indigene, mettendo in pericolo non solo la continuità delle attività economiche, dalle quali deriva la sussistenza delle comunità, ma anche la cultura e quindi la loro identità.
Una risorsa per salvaguardare la Terra
Il legame tra cambiamento climatico e stile di vita delle comunità indigene non è rilevante solamente per l’impatto negativo del primo sul secondo, ma anche per il ruolo fondamentale che queste comunità possono avere nella salvaguardia del nostro pianeta. L’organizzazione Cultural Survival, che si batte per i diritti dei nativi, spiega infatti che questo 5% della popolazione è il protettore di circa l’80% della biodiversità. Il motivo è semplice: questi gruppi indigeni sono legati, anche spiritualmente, all’ambiente in cui vivono, alla natura e alle sue risorse.
Data l’intensità del rapporto delle popolazioni indigene con l’ambiente circostante e la dipendenza dallo stesso, la comunità internazionale negli ultimi vent’anni ha riconosciuto il loro potenziale per la salvaguardia del patrimonio naturale del nostro pianeta. Per cominciare, le Nazioni Unite hanno dedicato loro uno spazio di rappresentazione nei processi decisionali, anche sul cambiamento climatico. Nel 2008, infatti, è stato istituito il Forum Internazionale delle Popolazioni Indigene sul Cambiamento Climatico, i quali rappresentanti si confrontano annualmente nelle conferenze mondiali sul clima, come l’ultima COP24 tenutasi a Katowice, in Polonia.
Al di là degli spazi rappresentativi a livello internazionale, gli indigeni sono anche riusciti ad assumere un ruolo da protagonisti attivi nella lotta al cambiamento climatico. Questo grazie all’opera dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), che sta raccogliendo le conoscenze ed osservazioni degli indigeni sull’ambiente circostante (come le osservazioni dei Sami sulla variabilità meteorologica invernale) affinché forniscano un supporto informativo agli studi e alle previsioni scientifiche elaborate dagli scienziati. Grazie a questi studi vengono poi elaborate strategie ad hoc per contenere le conseguenze negative del cambiamento climatico sui nativi e sull’intera società.
Come abbiamo visto, il cambiamento climatico colpisce maggiormente quei gruppi che già soffrono condizioni di povertà, isolamento e discriminazione, come gli indigeni. Come i Sami e gli Inuit, molte popolazioni indigene rischiano di perdere la propria identità comunitaria e sicurezza alimentare a causa del cambiamento climatico. Allo stesso tempo, proprio per la loro conoscenza intergenerazionale circa i ritmi della natura che li circonda, i nativi rappresentano una risorsa importantissima per la protezione della biodiversità. A livello internazionale sono stati fatti dei passi in avanti significativi per tutelarne i diritti e renderli attori di primo piano nella lotta al cambiamento climatico. Tuttavia, ciò non è ancora sufficiente: la sfida per il futuro sarà quella di riuscire ad introdurre le stesse istanze a livello nazionale per fare pressione sui governi locali, da dove proviene la vera minaccia al loro stile di vita.
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