Recovery plan italiano: l’analisi di Duegradi
di Federico Mascolo e Pietro Cesaro
Il 26 Aprile, l’Italia ha pubblicato la versione definitiva (poi sottoposta e approvata dalla Commissione Europea) del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, anche noto come Recovery Plan.
Perché è così importante? Perché, quantomeno nelle intenzioni, è il Piano che vorrebbe far ripartire l’Italia dopo la pandemia, e per trasformare la sua economia in modo da renderla più pronta alle sfide del secolo – prima tra tutte la crisi ecologica.
La domanda sorge quindi spontanea: il Piano è sufficientemente ambizioso per attuare questa trasformazione radicale, ed in particolare per dare il La alla transizione ecologica in Italia? La risposta breve: no. Ma proviamo ad andare con ordine.
Come “funziona” il Recovery plan?
Cominciamo dalle basi: il Recovery plan è finanziato, in buona parte, da risorse stanziate dall’Unione Europea, nell’ambito del pacchetto “Next Generation EU”.
L’Italia può ora accedere a (parte di) queste risorse europee, dato che il Piano è stato essere approvato dall’Unione Europea. Ad oggi, la Commissione Europea sta esaminando i vari piani presentati dai paesi membri dell’UE.
Ogni Piano deve infatti rispettare diversi “paletti”. A livello ambientale, ci sono tre linee guida fondamentali da tenere a mente:
Il 37% dei fondi UE deve essere destinato all’azione climatica
I parametri che definiscono quali progetti siano classificabili come “azione climatica” sono contenuti all’interno della legislazione europea sul Recovery plan.
Il rispetto del principio del “do no significant harm”
Nessun progetto finanziato all’interno del piano deve arrecare “danni significativi” all’ambiente. In pratica, tutte le voci del piano (e quindi non solo quelle climatiche) non devono danneggiare i sei obiettivi ambientali definiti dalla Commissione Europea: mitigazione e adattamento al cambiamento climatico; protezione delle acque e delle risorse marine, transizione verso un’economia circolare; prevenzione e riduzione dell’inquinamento; protezione e ripristino della biodiversità.
Riforme strutturali, non solo investimenti
Assieme alla lista dei progetti da finanziare, il Piano deve anche spiegare nel dettaglio le riforme che li accompagneranno. Per esempio: deve essere indicato non solo l’ammontare di investimenti per lo sviluppo del solare, ma anche quali riforme del mercato energetico sono state programmate per facilitarne la diffusione.
Cosa c’è nel Recovery Plan italiano?
Il Recovery plan italiano è suddiviso in sei “missioni”, ovvero sei obiettivi strategici da perseguire. La transizione ecologica è una di queste sei missioni, per la quale sono stati stanziati circa 70 miliardi di euro.
Quella che avete appena visto è la suddivisione “ufficiale” delle risorse, che potete trovare nelle prime pagine del piano. Noi ci siamo concentrati esclusivamente sulle spese “verdi” e abbiamo cercato di capire come sono state distribuite attraverso i vari settori. Analizzate un po’ più nel dettaglio appaiono così:
*Noterete che i numeri non coincidono esattamente con quelli “ufficiali”. Questo perché il piano (quantomeno la versione pubblica) non specifica come verranno spesi i soldi di ReactEU e quelli provenienti dalle risorse nazionali.
L’analisi di Duegradi
Il Recovery Plan offre tantissimi spunti di riflessione – troppi da coprire in questo articolo. Abbiamo quindi deciso di strutturare la nostra analisi in due blocchi: nel primo cerchiamo di capire se il piano rispetta davvero le linee guida della Commissione; nel secondo proviamo a raccontarvi quali aspetti del piano ci convincono e quali no. Inoltre, è importante sottolineare che le informazioni che abbiamo sono parziali: il documento in mano alla Commissione è infatti molto più dettagliato di quello disponibile pubblicamente.
Il piano rispetta le linee guida della Commissione?
Partiamo dai parametri forniti dalla Commissione per la stesura del piano:
L’obiettivo del 37% dei fondi destinati all’azione climatica è più o meno raggiunto, ma…
I 70 miliardi dedicati alla transizione energetica corrispondono solo al 32% delle risorse totali, ma se aggiungiamo al conto anche i soldi dedicati alla mobilità sostenibile si arriva quasi al 43% del totale. Ci teniamo però ad aggiungere due considerazioni.
La prima: ciò che davvero conta per avviare la transizione ecologica non è (solo) la quantità complessiva di soldi messa a disposizione, ma se questi vengono spesi per azioni davvero trasformative (ci arriviamo tra poco).
La seconda: il fatto che un investimento venga definito “verde” non vuol dire che lo sia per davvero. Per fare un esempio: il 28,5% del budget dedicato all’agricoltura è dedicato alla voce “Sviluppo logistica per i settori agroalimentare, pesca e acquacoltura, silvicultura, floricoltura e vivaismo”. Al suo interno troviamo, tra le altre, il “potenziamento della capacità di esportazione delle PMI agroalimentare italiane”, il “miglioramento della capacità logistica dei mercati all’ingrosso” e la “digitalizzazione della logistica”; tutte azioni che non possono davvero essere classificate come verdi.
Anche il Green Recovery Tracker del centro di ricerca E3G, creato per tracciare gli investimenti verdi nei piani di ripresa nazionali, conferma questa interpretazione. Secondo i ricercatori che hanno lavorato al progetto, solamente il 16% dei fondi del Recovery plan sono davvero indirizzati ad azioni verdi.
Il “do no significant harm” è complessivamente rispettato, per ora
Ad una prima lettura, le voci di spesa non dedicate alla transizione ecologica sembrano rispettare il principio di “non arrecare danni significativi” all’ambiente. Per intenderci: non c’è nessuna nuova centrale a carbone né una nuova diga potenzialmente disastrosa per la biodiversità e la gestione delle risorse idriche. E anche se risulta difficile considerare come “non dannose” alcune misure – ad esempio i fondi per l’installazione di caldaie a gas – esse lo sono, quantomeno all’interno dei parametri UE – ad esempio nella misura in cui nuove caldaie a gas causano meno danni di caldaie a gas vecchie vent’anni.
Rimane tuttavia da verificare quale sarà l’impatto ambientale di molti progetti nella fase di implementazione. La meccanizzazione del settore agricolo o l’estensione delle ferrovie per l’alta velocità, per esempio, saranno davvero fatte senza arrecare alcun danno alla biodiversità?
Riforme a doppio taglio
Non entreremo nei dettagli per brevità. Diremo soltanto che il Piano presenta due diversi ordini di riforme: le cosiddette “riforme abilitanti”, che sono trasversali a tutte le dimensioni del piano; e alcune più specifiche riforme settoriali.
La maggiorparte di queste riforme ruota attorno a due parole chiave: semplificazione e razionalizzazione. E qui è necessario essere vigili: la semplificazione di molte procedure burocratiche, soprattutto in Italia, è fondamentale per imprimere un’accelerata decisiva alla transizione ecologica; ma semplificare senza criterio può facilmente significare un indebolimento delle misure di tutela dell’ambiente. In altre parole: per partire più in fretta, alcuni progetti dal dubbio impatto ambientale – treni ad alta velocità, infrastrutture di biometano o idrogeno – potrebbero essere valutati con criteri più approssimativi di quelli attualmente in vigore. Con buona pace anche del principio “do no significant harm”.
Cosa ci piace, cosa non ci piace, e perché
Il capitolo sull’economia circolare e la gestione dei rifiuti è fatto di luci ed ombre. Le luci vengono dal lato delle riforme: il piano prevede una nuova strategia sull’economia circolare e un programma nazionale per la gestione dei rifiuti. L’ombra più minacciosa riguarda invece gli 1,5 miliardi dedicati alla “realizzazione di nuovi impianti di gestione rifiuti e ammodernamento di impianti esistenti”. Non è specificato che tipo di impianti saranno finanziati, quando invece un inceneritore e un impianto di riciclo della carta hanno chiaramente impatti ambientali molto diversi.
Nel capitolo sull’agricoltura, gli aspetti più gravi sono senza dubbio l’accento sulla meccanizzazione e la totale mancanza di accenni all’agricoltura biologica. Come fanno dei nuovi trattori diesel ad essere considerati una spesa verde? E d’altro canto, come è possibile che non un centesimo dei 2,8 miliardi di fondi stanziati sia dedicato ad un modello di agricoltura più sostenibile? Il miliardo e mezzo per l’installazione di pannelli solari sui tetti delle strutture agricole, che permette alle aziende agroalimentari di avere energia rinnovabile a disposizione senza consumo di suolo, è invece una nota positiva. Si tratta però di una misura estemporanea, non inserita all’interno di una strategia complessiva per lo sviluppo delle energie rinnovabili.
È proprio al capitolo sull’energia, per la quale il governo ha stanziato 13,2 miliardi, che il discorso si complica. Ci sono due voci promettenti: i 4,1 miliardi per potenziare e digitalizzare la rete elettrica e i 2,2 miliardi per le comunità energetiche, che incentiverà l’autoproduzione di energia da fonti rinnovabili nei comuni di medio-piccole dimensioni. Si tratta di investimenti indispensabili, visto il ruolo fondamentale che l’energia elettrica rivestirà all’interno della transizione ecologica, e in un paese in cui oltre 5mila comuni hanno meno di 5 mila abitanti.
Purtroppo, le note positive sulla transizione energetica finiscono qui. Sulle rinnovabili, il Piano è del tutto insoddisfacente. Innanzitutto perché manca di ambizione: i fondi stanziati sono pensati per la realizzazione di 4,2 GW di nuovi impianti rinnovabili, che sono meno di quelli che l’Italia dovrebbe installare in un solo anno per essere in linea con gli obiettivi europei (5-6GW). Poi perché manca una strategia di sviluppo delle rinnovabili: non c’è una linea chiara da seguire, e infatti i fondi sono un po’ sparpagliati tra diverse misure il cui impatto trasformativo è quantomeno dubbio. Non riusciamo in particolare a spiegarci perché, in un paese in cui solare ed eolico hanno un grandissimo potenziale, il 30% dei fondi totali per le rinnovabili venga destinato al biometano e 3,2 miliardi vengano invece dirottati per lo sviluppo dell’idrogeno – che potrebbe essere anche derivato da energie rinnovabili, ma che al momento è prodotto quasi esclusivamente bruciando gas fossile. Gli investimenti sproporzionati su idrogeno e biometano non sono trasformativi, anzi rischiano di essere dannosi: ci fanno rimanere attaccati ad un sistema energetico basato sui gas, e non su elettrificazione ed efficienza energetica.
Per l’efficientamento energetico degli edifici, la strategia è opposta a quella usata per le rinnovabili: il governo ha deciso di puntare (quasi) tutto (quasi 14 miliardi) sul cosiddetto “ecobonus”, quasi 14 miliardi con cui lo Stato ripaga le spese per le ristrutturazioni degli edifici. Ci sono due cose che lasciano perplessi. La prima: anche gli interventi antisismici sono eleggibili per ottenere il bonus – un investimento sacrosanto in un paese ad alto rischio sismico come il nostro, ma difficilmente classificabile come “spesa verde”. La seconda: l’ecobonus può essere elargito ad ogni intervento che migliora un intervento di almeno due classi energetiche. Ma è piuttosto miope pensare che sostituire una caldaia a gas con un’altra caldaia a gas (sebbene più efficiente) sia uguale ad installare invece una pompa di calore; il risultato è che molti palazzi, anche se ammodernati, continueranno a utilizzare gas fossile almeno per i prossimi 15 anni.
Nonostante l’ingente numero di fondi europei stanziati, l’approccio del Piano alla mobilità sostenibile presenta due mancanze inaccettabili.
Innanzitutto, mancano fondi e strategie per elettrificare il settore dei trasporti. Meno dell’1% (1,2 miliardi) dei fondi complessivi del Piano è destinato all’elettrificazione della mobilità, che è il prerequisito fondamentale per abbattere le emissioni del settore. Per capirci: come facciamo a sostituire le macchine a benzina con le macchine elettriche se non ci sono le colonnine per ricaricarle? Ecco, per le ricariche il governo ha stanziato solo 750 milioni.
L’altro problema è che si sono dimenticati delle città. Oltre 25 miliardi saranno spesi per i treni ad alta velocità a medio e lungo raggio, mentre solo 3,6 miliardi saranno spesi per sviluppare la mobilità urbana. Complessivamente, il piano prevede la realizzazione di 120 km di nuove filovie, 85 km di tram, e la bellezza di 11 km di metro. Per dare un’idea: la Metro C di Roma è lunga (al momento) 18 km e il suo costo iniziale superava i 3 miliardi di euro. Ci sono poi 600 milioni per le piste ciclabili (quasi la metà di quelli stanziati dal Piano di Conte) e altri 3,6 miliardi per il “rinnovo della flotta di bus e treni”. Non è chiaro quanto “verde” sarà questo rinnovo, perché non è specificato quali saranno i nuovi mezzi utilizzati. Senza nemmeno menzionare l’importanza che il trasporto locale ha nella vita di tutti i giorni dei cittadini, sul piano ambientale la miopia sta nel fatto che è proprio nelle città che il traffico ha l’impatto peggiore, sia in termini di emissioni di gas serra che sulla qualità dell’aria.
Gli investimenti sulla biodiversità sono giusti, ma spendervi solo lo 0,5% del Piano (1,7 miliardi) è davvero troppo poco (per fare un paragone, la Spagna gli dedicherò il 5,37% del totale). Viene così trascurata una risorsa sempre più centrale non solo sul fronte ambientale, ma anche politico ed economico. La salvaguardia degli ecosistemi sta entrando a far parte persino delle agende delle banche centrali, perché ogni attività del nostro sistema economico dipende, in un modo o nell’altro, dai “servizi” che la natura ci offre. Senza insetti impollinatori come le api, per esempio, la produzione agricola di qualsiasi regione si troverebbe di fronte a enormi cali di rendite agricole e a prezzi molto instabili. L’Italia ha un patrimonio naturale da preservare, non solo perché “bello”, ma per la continuità del suo settore turistico, agricolo e industriale.
Un numero considerevole di risorse – circa 9 miliardi – sono state stanziate per l’adattamento ai cambiamenti climatici, ed in particolare per ridurre i rischi idrogeologici ad essi collegati. Se consideriamo la riforma ad essi allegata siamo certamente di fronte ad un punto di partenza positivo, specialmente nel fragile territorio italiano. Il problema di fondo è che queste misure sono state pensate prendendo come riferimento la Strategia nazionale risalente al 2014 e dunque ormai piuttosto datata. Nel Piano non ci sono riferimenti a futuri aggiornamenti della strategia.
In conclusione, non ci possiamo dire soddisfatti. Non si tratta solamente del fatto che gli investimenti davvero verdi siano inferiori alle aspettative (e ai parametri richiesti dall’UE). Manca soprattutto l’ambizione di voler andare oltre quello che era già pianificato da tempo, e poi mancano una visione d’insieme della transizione ecologica e le strategie settoriali necessarie per implementarlo (sulle rinnovabili, sui trasporti, sull’adattamento, sulla biodiversità).
Ci allacciamo alla domanda di inizio articolo: il Piano è sufficientemente ambizioso per attuare questa trasformazione radicale, ed in particolare per dare il La alla transizione ecologica in Italia?
La risposta rimane, dopo questa (lunga) analisi: no.
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