equity

Responsabili tutti ma ciascuno in modo diverso

Responsabili tutti ma ciascuno in modo diverso

Tutti i Paesi sono responsabili nell’affrontare il degrado ambientale globale, ma non lo sono in modo uguale.

 

Il diritto internazionale ambientale e dello sviluppo sostenibile ha le idee chiare: in relazione alla crisi climatica tutti gli stati sono responsabili, ma in modo e con un grado differente. Emerso sin dalla Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo di Rio nel 1992, tale principio si sviluppa intorno a considerazioni generali di equità del diritto internazionale. Già nella dichiarazione di Rio si leggeva:

 

“[…] In considerazione del differente contributo al degrado ambientale globale, gli Stati hanno responsabilità comuni ma differenziate. I paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe su di loro nel perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile date le pressioni che le loro società esercitano sull’ambiente globale e le tecnologie e risorse finanziarie di cui dispongono”

 

In altre parole, tutti i Paesi sono responsabili nell’affrontare il degrado ambientale globale, ma non lo sono in modo uguale. La ragione dietro a questo principio, meravigliosamente e comunemente riassumibile in quattro parole (responsabilità comune ma differenziata), tiene conto della necessità che tutti i Paesi si organizzino in una risposta collettiva e responsabile in favore dell’incombente crisi climatica, ma con la consapevolezza che ogni Paese, in base allo stadio del suo sviluppo economico e delle sue emissioni storiche,  debba contribuire a seconda della propria capacità.

 

Non è un concetto nuovo: addirittura, negli anni Settanta, se ne parlava alla prima Conferenza delle Nazioni Unite a Stoccolma, dove si convenne che gli standard ambientali da rispettare e gli obiettivi climatici venissero applicati prima di tutto ai Paesi più sviluppati, poiché si riconosceva il rischio di un loro costo sociale inappropriato e ingiustificato se applicati ai Paesi in via di sviluppo. 

 

Le ragioni

In aggiunta alla disuguaglianza nella capacità di contenere le proprie emissioni e nella possibilità di spesa per ridurre e mitigare il cambiamento climatico, quando si parla di responsabilità climatica entrano in gioco altri due fattori essenziali. In primis, non tutti gli Stati hanno contribuito al degrado ambientale e alla magnitudine della crisi climatica in modo eguale.

 

Basti pensare che dal 1751 ad oggi gli Stati Uniti hanno emesso più CO2 di ogni altro paese (400 miliardi di tonnellate circa, responsabili per il 25% delle emissioni totali storicamente emesse), più del doppio del secondo grande emettitore, la Cina. Fino al 1880, invece, più della metà delle emissioni cumulative di tutto il mondo derivavano dal Regno Unito, che nel 2017 si attestava solo sull’1% delle emissioni globali. In secondo luogo, i Paesi non sono equamente esposti e vulnerabili alle conseguenze del cambiamento climatico, disponendo di capacità tecniche ed economiche molto diverse per affrontarle.

 

 

Cinque anni fa a Parigi, durante la COP21, i diversi Stati si trovarono d’accordo nell’accettare l’urgente necessità che tutti limitassero le proprie emissioni e che alzassero i propri obiettivi ambientali. Grazie al concetto di responsabilità comuni ma differenziate, che divide i Paesi in base alla ricchezza e alle emissioni di ciascuno, proprio nel 2015 si discusse anche della possibilità dei paesi sviluppati di orientare risorse finanziarie e supporto tecnologico per assistere i paesi in via di sviluppo in progetti per la mitigazione e per l’adattamento alle conseguenze del cambiamento climatico, in linea con il principio di responsabilità della Convenzione. Per questo le tematiche relative all’equità sono e devono necessariamente essere incorporate nel contesto delle negoziazioni climatiche internazionali.

 

Dalla teoria alla pratica

Le negoziazioni sul clima, quindi, sono molto difficili e complesse non per meri motivi economici, ma per questioni di equità delle politiche da applicare, che sono centrali nel dibattito politico e ancor più critiche in un contesto internazionale. Quando si parla di riscaldamento globale in termini economici lo si definisce come un fallimento del mercato (ovvero, una situazione in cui il libero mercato non è efficiente nel garantire un’allocaho zione di beni e servizi ottimale), conseguente agli impatti negativi della produzione e dei consumi globali. Come soluzione ai fallimenti di mercato spesso l’economia tradizionale impone tasse e/o prezzi sui comportamenti da correggere; in questo caso, però, anche se il mercato è globale, applicare una tassa comune a tutti farebbe sì che i Paesi più ricchi potrebbero permettersi di pagare molto più facilmente di quelli meno ricchi.

 

 

 

Il risultato è che, partendo da una situazione che è già iniqua, perché sono i Paesi sviluppati i primi responsabili della crisi climatica, una soluzione uniforme farebbe aumentare le disparità invece che ridurle. Infatti, così facendo si andrebbe a ledere la ricchezza mondiale da un punto di vista distributivo. D’altro canto, però, l’immobilismo politico farebbe pagare a caro prezzo i Paesi più vulnerabili, che soffrirebbero in modo sproporzionato l’esposizione alle conseguenze della crisi climatica. Proprio per questo, il principio delle responsabilità comuni ma differenziate vige come linea guida fondamentale per un’equa suddivisione dei costi ed un’allocazione proporzionale del budget di carbonio globale, ovvero la misura  che definisce quante tonnellate di gas serra rimangono da emettere prima di superare il punto di non ritorno, oltre il quale l’obiettivo dei 2° centigradi non verrà rispettato.

 

Nel passaggio dalla teoria alla pratica, nella discussione politica internazionale vengono individuati quattro fondamenti da perseguire in favore dell’equità internazionale quando si tratta di distribuire il budget di carbonio: la capacità contributiva, in base alla quale maggiore è la capacità economica di un Paese, più questo dovrebbe contribuire alla causa comune climatica; la ripartizione dei costi, che, se applicata al prezzo da pagare a fronte di una nuova politica economica, prevede una contribuzione indirettamente proporzionale ai costi sostenuti (ciò prevede che chi subisce costi maggiori a causa delle conseguenze del cambiamento climatico possa, per compensare, contribuire in maniera minore alle politiche finanziarie per combatterlo); il principio del merito, per il quale maggiore è l’impegno in favore della risoluzione del problema comune, più elevato dovrebbe essere il suo premio e riconoscimento; i confronti adeguati tra la capacità inquinante di un Paese e la tecnologia o le fonti energetiche alternative disponibili in un certo momento storico.

Embed from Getty Images

Sono principi che vengono vanificati dall’inerzia politica e dall’assenza di leve per obbligare i Paesi ad agire. È come se si conoscessero le regole del gioco, ma mancasse la volontà di mettersi in moto. Si prenda l’Accordo di Parigi, ad esempio: il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici, ma che tralascia il vincolo di tipo legale per il contributo alla diminuzione delle emissioni dei Paesi aderenti (Nationally Determined Contributions). Fallimentari o pro forma si dimostrano anche gli sforzi finanziari per il supporto tecnico agli Stati in via di sviluppo, mentre i fondi destinati ad operazioni di mitigazione e adattamento (tramite, tra gli altri, il Green Climate Fund) si rivelano inferiori agli effettivi bisogni dei Paesi.

 

Il problema di fondo è che, nell’assenza di convenzioni internazionali legalmente vincolanti, si confida nell’applicabilità del principio di responsabilità comune ma differenziata su base volontaria. E fino ad ora, ça va sans dire, assumersi le proprie responsabilità per la crisi climatica non sembra essere all’ordine del giorno per la maggior parte dei Paesi sviluppati. 

 

 

Segui Duegradi su InstagramFacebookTelegramLinkedin e Twitter

Add a Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *