Essere un difensore ambientale in El Salvador
Dal ruolo degli attivisti ambientali a quello della tecnologia, e cosa significa essere attivista in uno dei paesi più violenti al mondo: Ricardo Navarro, difensore ambientale salvadoregno e vincitore del Premio Goldman, si racconta su Duegradi.
di Sebastiano Santoro
San Salvador, El Salvador. Ad accogliere chi entra nella sede dell’associazione CESTA (Centro Salvadoreño de Tecnología Apropiada) c’è un piccolo murales colorato con scritto “separazione dei rifiuti”. Poco più in là, nel patio, ci sono dei bidoni dove i rifiuti vengono suddivisi in vetro, plastica, materiale indifferenziato e organico. Una rarità in El Salvador. La raccolta differenziata infatti non è un’abitudine diffusa in questo piccolo paese dell’America Centrale che ogni giorno produce più di 4mila tonnellate di rifiuti, e di questi solo il 6,5% viene riciclato.
Il Presidente di CESTA, Ricardo Navarro, non è ancora arrivato. Una segretaria avvisa che non ci metterà molto. È in ritardo a causa del traffico, e non c’è da stupirsi: il traffico di San Salvador è qualcosa di estenuante, soprattutto nelle ore di punta. Tra i fumi densi dei tubi di scappamento, il calore e l’umidità tropicale, si può aspettare chiusi nell’abitacolo per ore.
Ne approfitto per guardarmi intorno e informarmi sull’associazione. L’obiettivo di CESTA è “contribuire alla sostenibilità del Salvador mediante la promozione e l’implementazione di programmi, progetti e azioni ambientali”. Uno di questi programmi è quello di promuovere la cultura e l’uso della bicicletta. In pratica vengono organizzati eventi, promosse attività di sensibilizzazione, e soprattutto viene fatta pressione sui decisori politici, affinché si incentivi l’uso di questo mezzo di trasporto sostenibile. In un paese con 1.6 milioni di veicoli circolanti (su 6 milioni e mezzo di abitanti) e un tasso di crescita annuo del numero di veicoli di quasi il 7%, convertire l’auto con la bicicletta sembra un’idea venuta dal futuro.
Guadalupe – un’anziana signora che cucina per i membri di CESTA – mi mostra l’orto che è nel patio. In questo periodo dell’anno si coltivano fagioli e altre verdure locali, spiega. Poco distante dalle piante di fagiolo c’è un almendro del rio. “Quest’albero è stato piantato vicino alle coltivazioni perché resiste bene ai climi tropicali – dice Guadalupe – In caso di siccità l’umidità del tronco e delle sue radici ha un effetto benefico sugli altri vegetali”.
Un altro programma di CESTA è il rafforzamento delle tecniche di agricoltura organica e della sovranità alimentare. Ultimamente il concetto di sovranità alimentare si è imposto anche in Italia vista la decisione dell’attuale governo di creare un ministero con questo nome. Ancora non sappiamo come verrà declinato dal governo Meloni, ma di sicuro il concetto di sovranità alimentare non nasce oggi. È stato coniato nel 1996 da Via Campesina, un’organizzazione internazionale di contadini nata per affermare il diritto di ciascun essere umano ad avere un cibo sano, prodotto con metodi ecologici, ma soprattutto coltivato o scambiato a livello locale o regionale. In pratica un manifesto politico per la “de-globalizzazione dei sistemi alimentari”, come scrive Valigia Blu.
Finalmente Navarro arriva. A primo sguardo, a parte i capelli e la barba ormai canuti, non è cambiato molto dalla foto pubblicata sul sito del Goldman Environmental Prize. Il Goldman è uno dei riconoscimenti più importanti per gli attivisti ambientali, una sorta di premio Nobel per l’ambiente. Navarro lo ha ricevuto nel 1995 grazie al suo lavoro di attivismo, e in particolare una campagna a favore della protezione della finca El Espino, la più grande riserva forestale dell’area metropolitana di San Salvador, e uno dei polmoni verdi del paese.
Secondo diverse associazioni ambientaliste, la foresta permette l’infiltrazione di 2 milioni di metri cubi d’acqua, assorbe 57 mila tonnellate di carbonio ogni anno, e ospita circa 2.241 specie animali. Da qui l’importanza ecologica dell’area, che, grazie alle denunce di Navarro, è stata dichiarata zona protetta nel gennaio del 1993.
Retrospettivamente però, la campagna ha ottenuto solo in parte quello che si era prefissata. A causa di alcuni escamotage legislativi, parte dell’area boschiva è stata ceduta a privati, che vi hanno costruito case, hotel e centri commerciali. In aggiunta, il Presidente della Repubblica de El Salvador, Nayib Bukele, ha recentemente parlato della possibile realizzazione in un’area della foresta di un nuovo Stadio Nazionale, un’opera che il Ministero dell’Ambiente ha dichiarato di alto impatto ambientale.
Negli anni la superficie della finca si è ridotta, e ora El Espino sopravvive minacciato dalla giungla urbana della capitale, che a poco a poco la asfissia con il suo cemento.
Allora Presidente Navarro, partiamo dal principio. Da dove nasce la sua passione per l’attivismo ambientale?
È stato quando sono andato a studiare negli Stati Uniti (dopo aver conseguito una laurea di ingegneria meccanica in Salvador, negli anni ‘70 Navarro ha viaggiato in Indiana e poi a Washington per studiare una materia che in quegli anni era una novità assoluta: come generare energia dal sole e dal vento). Durante quegli anni cominciai a realizzare che bisognava fare qualcosa per salvaguardare la natura. È normale che mentre uno svolge le sue attività, o esercita la sua professione, non si rende conto dell’impatto che genera all’ambiente. Quando ho cominciato a prendere coscienza di quello che, durante molti anni, è stato chiamato “sviluppo” , mi sono reso conto che si stavano distruggendo le condizioni per mantenere la vita sul pianeta, inquinando cose basilari come l’aria e l’acqua. Qui in Salvador alcuni fiumi sono completamente scomparsi a causa della distruzione delle zone dove si raccoglie l’acqua piovana. Oppure una volta si producevano moltissimi avocado, oggi invece li importiamo dal Messico, e sono peraltro di bassa qualità. O i fagioli, che hanno sempre fatto parte della dieta salvadoregna. Oggi siamo costretti a comprarli dalla Cina. Quando uno mette insieme tutte queste cose pensa “dove stiamo andando? verso la distruzione di noi stessi”. Fare l’attivista consiste semplicemente nel cercare di mantenere le condizioni che permettono la nostra vita su questo pianeta.
Quindi, in pratica, è la realtà del suo paese che l’ha spinta ad abbracciare la causa ambientalista. Ha avuto dei modelli o figure a cui ispirarsi?
Una delle persone che mi ha ispirato di più, dal quale ho appreso molto e che ho avuto anche la fortuna di conoscere di persona, è stato Barry Commoner. In particolare uno dei suoi libri più famosi The closing circle. E poi ovviamente Primavera Silenziosa di Rachel Carson. Figurati che, durante gli anni sessanta, El Salvador era il paese dove si usava più DDT per chilometro quadrato al mondo (il DDT è uno degli insetticidi più famosi, a causa della sua tossicità da tempo è vietato in Europa). Avevamo questo record perché c’erano molte piantagioni di cotone. Il DDT si applicava persino nei capelli dei bambini per eliminare i pidocchi.
Che cosa significa per lei essere attivista ambientale?
Essere attivista ambientale significa entrare in conflitto con gruppi di potere, economico e politico, che si beneficiano di attività che inquinano la natura. In Salvador, per esempio, abbiamo un problema grave con la distruzione del territorio. Ci sono aziende interessate a costruire centri commerciali e altri tipi di urbanizzazione solo per fare profitto. Ovviamente un bosco non genera lo stesso guadagno che convertirlo in un centro di sviluppo ecologico. Poi, un altro grave problema è che le autorità salvadoregne non esercitano il loro ruolo di protezione ambientale. Un esempio è quello che è successo con il tema dell’aeroporto: il governo attuale vorrebbe costruire un aeroporto nell’oriente del paese, la popolazione locale però è preoccupata, in primis perché le verrebbe sottratta la terra di cui sostanzialmente vivono, e poi per l’impatto ambientale del progetto. Ma i politici non capiscono, né il problema sociale né quello ecologico. C’è un video che circola in rete in cui il Presidente Bukele dice ai suoi ministri che vuole tutti i permessi ambientali in sospeso approvati e firmati in 100 giorni, perché, dice, ci sono in gioco miliardi di dollari di investimenti. Insomma, io ho studiato ingegneria, perché quello che mi piace è la fisica, la matematica, ma a conti fatti la maggior parte del tempo lo trascorro litigando con i politici. La realtà è questa: la lotta è contro le grandi multinazionali che, con l’appoggio della politica, cercano di aumentare la propria ricchezza.
Una sanguinosa guerra civile durante gli anni ottanta; il fenomeno delle Maras oggi: violente organizzazioni criminali che hanno trasformato El Salvador in uno dei paesi con il più alto tasso di omicidi al mondo. Il regime di eccezione decretato lo scorso marzo dal Presidente Bukele per contrastare il fenomeno delle Maras, ma che è stato aspramente criticato da numerose associazioni di difesa dei diritti umani. La violenza in El Salvador sembra qualcosa di endemico. Quali rischi corre un difensore ambientale in questo paese?
In tutto il mondo quando si lotta per proteggere l’ambiente automaticamente si viene etichettati come nemici del progresso. Certo, molto, del tipo di attacco ricevuto, dipende da quanto potere può avere il difensore ambientale. A me, per esempio, tanti anni fa mi inserirono in una lista composta da altre 13 persone dicendo che ci avrebbero ucciso. Ma non successe. Il mio lavoro, insieme a quello di altri, ha avuto una certa risonanza pubblica, un certo interesse mediatico, tutti ci conoscono nel paese. Invece altri attivisti che non sono famosi come noi, ma che hanno dedicato la loro attività agli stessi progetti, sono stati assassinati. È successo ai quattro attivisti che hanno protestato contro l’attività di sfruttamento minerario nel Salvador, e sono stati ammazzati. Senza ombra di dubbio, una forma di difesa dalle minacce e dagli attacchi è la visibilità. Avere accesso a mezzi di comunicazione o ricevere riconoscimenti, premi, qualsiasi tipo di visibilità è positivo per le persone che si dedicano a difendere i diritti umani, non solo quelli ambientali. Un’altra cosa importante è il giornalismo internazionale, perché spesso in quello locale non si ha risonanza. A me è capitato di conoscere giornalisti che mi hanno confessato che i loro editori gli hanno ordinato di non intervistarmi. Insomma: non è la stessa cosa assassinare una persona conosciuta o un’altra che nessuno conosce. Eppure, perfino in questo caso, vedi cosa è successo in Honduras con Berta Caceres (Berta Caceres era una famosa attivista ambientale, e leader indigena lenca, che lottava contro la controversa realizzazione di un progetto idroelettrico presso il Rio Gualcarque; anche lei, come Navarro, ha vinto nel 2015 il Goldman Prize, tuttavia un anno dopo, nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016, è stata uccisa da alcuni sicari nella sua casa di Intibucà).
Cambiamo tema. Spesso si leggono pareri di alcuni attivisti che diffidano delle conseguenze della tecnologia, e se ci riflettiamo è stato uno sviluppo tecnologico – l’invenzione della macchina a vapore – a dare il via alla rivoluzione industriale e all’attuale crisi climatica. Eppure CESTA sta per “Centro Salvadoregno di Tecnologia Appropriata”… cosa ne pensa?
Non è un caso questo nome. La Tecnologia Appropriata è quella più adeguata alle condizioni specifiche del luogo in cui è utilizzata. Ad esempio con il programma di agroecologia cerchiamo di usare fertilizzanti organici, di evitare l’uso di pesticidi chimici, e di risparmiare acqua. Quello che si è fatto per millenni in fondo, solo che con la rivoluzione verde queste tecniche si sono un po’ perse. Anche il programma della bicicletta va su questa linea. Il traffico motorizzato è ormai inefficiente. La bicicletta è il mezzo di trasporto più adeguato che si può utilizzare in molte parti del mondo. Certo, esistono luoghi in cui non è possibile, ma esistono moltissimi in cui lo è. Crediamo che sia fondamentale iniziare a pensare ad alternative tecnologiche. Il problema della tecnologia sorge quando essa serve solamente a incrementare la capacità di produzione, senza preoccuparsi di altre cose. Io credo che il punto sia ottenere risultati senza danneggiare la natura.
Terminiamo con una speranza e una paura per il futuro.
Io credo che abbiamo imboccato un cammino che sta distruggendo le condizioni che rendono possibile la vita dell’essere umano sul pianeta. In futuro dovremo affrontare crisi sempre più forti; ci saranno sempre più guerre per accaparrarsi risorse strategiche, in passato era per il petrolio, in futuro sarà l’acqua. Secondo l’istituto di ricerca SIPRI, le spese militari mondiali del 2021 hanno superato per la prima volta 2mila miliardi di dollari. Perché dobbiamo spendere tanto denaro in armamenti che hanno la capacità di spazzare via l’intera umanità? Questa è una cosa irrazionale. Il cammino attuale della nostra società è irrazionale, non ha lo scopo di preservare la nostra vita, ma solo di preservare il potere politico ed economico. Se non invertiamo la rotta andremo in contro alla distruzione della civiltà umana. Dobbiamo cambiare tutto se vogliamo continuare a far parte del pianeta Terra. Ma il punto è che lo possiamo fare. Possiamo invertire la rotta. Chi lo decide? Siamo noi che lo decidiamo.
Duegradi vive anche grazie al contributo di sostenitori e sostenitrici. Sostieni anche tu l’informazione indipendente e di qualità sulla crisi climatica, resa in un linguaggio accessibile. Avrai contenuti extra ed entrerai in una community che parteciperà alla stesura del piano editoriale.
Add a Comment