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È davvero tutta colpa della Cina? 

È davvero tutta colpa della Cina?

Uno sguardo più attento ai dati per capire la crisi climatica

 

di Federica Cappelli

 

L’ultimo report dell’IPCC offre una svolta storica nella comprensione della crisi climatica e dei suoi principali responsabili. La narrazione mainstream della crisi climatica ha avuto fino ad ora la tendenza a concentrarsi solo su una piccola parte dei dati a disposizione, fornendo in questo modo una rappresentazione parziale e distorta della realtà. Uno sguardo più attento ai dati rivela, invece, tutto un altro quadro rispetto a chi siano i veri responsabili del cambiamento climatico oggi in atto.

 

L’ultimo report dell’IPCC, pubblicato ad aprile, offre una svolta storica nella comprensione della crisi climatica, poiché per la prima volta  il Nord America e l’Europa vengono riconosciuti esplicitamente come i principali responsabili della crisi climatica tutt’ora in atto, in quanto generano  la maggior parte delle emissioni fin dalla rivoluzione industriale. L’ultimo report prima di questo, pubblicato nel 2014, identificava invece l’eccessiva crescita della popolazione come la principale causa di emissioni di CO2.

 

I fraintendimenti generati da questo tipo di visione hanno portato molti a puntare il dito in primis verso la Cina e in generale verso i paesi più poveri in cui la popolazione cresce più velocemente. A distanza di pochi anni, questo nuovo report cambia in maniera radicale la questione delle responsabilità climatiche, non lasciando più dubbi sul fatto che la principale causa delle emissioni climalteranti sia invece il fattore ricchezza. Uno sguardo più attento ai dati ci consente di capire come siamo arrivati a questa svolta. 

 

Emissioni in termini assoluti

È risaputo  che la Cina sia  attualmente il paese con il più alto livello di emissioni di CO2 al mondo e viene spesso additata come la principale responsabile dell’attuale crisi climatica. In effetti, in termini assoluti, le emissioni cinesi sono di gran lunga superiori a quelle di tutti gli altri paesi. I dati forniti dal Global Carbon Atlas mostrano che, nel solo 2019, la Cina ha prodotto circa 10490 Mton CO2 (circa 29,6% delle emissioni globali del 2019), seguita dagli Stati Uniti con 5256 Mton CO2 (circa 14,8%), dall’Unione Europea (UE-27) con circa 2756 Mton CO2 (circa il 7,7%) e dall’India con 2626 Mton CO2 (circa 7,4%). 

(Fonte: Global Carbon Atlas)

 

Non possiamo non tenere conto della storia

Tuttavia, la rappresentazione delle emissioni in termini assoluti costituisce una rappresentazione parziale e ingannevole della realtà. Un altro dato che andrebbe considerato, ad esempio, è la tendenza ad accumularsi in atmosfera, caratteristica fondamentale dell’anidride carbonica e di tutti gli altri gas serra. Le emissioni prodotte in un dato momento storico non sono quindi solo di passaggio in atmosfera, ma si vanno ad aggiungere a quelle già prodotte negli anni precedenti.

 

Di conseguenza, una corretta rappresentazione della responsabilità nella quantità di emissioni di CO2 prodotta non può non tenere conto delle emissioni storiche dei vari paesi. Perciò prendendo in considerazione le emissioni cumulate (ovvero, la somma delle emissioni prodotte nell’intero arco temporale) a partire dalla rivoluzione industriale, gli Stati Uniti figurano come il paese che ha emesso più anidride carbonica tra il 1850 e il 2018, con il 27% delle emissioni cumulate globali di CO2, seguiti dall’Unione Europea con il 17% e dalla Cina, che si classifica terza con l’11%. Il riconoscimento di questi diversi contributi storici alle emissioni globali è alla base del principio delle responsabilità comuni ma differenziate, secondo il quale ciascun paese deve ridurre le proprie emissioni a seconda delle proprie responsabilità storiche e della propria capacità contributiva.

 

Le dimensioni contano

Fino a questo momento abbiamo dato lo stesso peso a ciascun paese, immaginando che a produrre le emissioni sia “l’aggregato paese”, indipendentemente dalle persone presenti al suo interno. Tuttavia, dato che a produrre anidride carbonica sono invece proprio quelle persone, appare evidente come il confronto tra le emissioni prodotte in Cina, che da sola conta più di 1,4 miliardi di persone, e quelle prodotte in un paese come l’Italia (che ha poco meno di 60 milioni di abitanti), o come gli Stati Uniti ( 329 milioni), non possa essere fatto tanto a cuor leggero.

 

Uno sguardo ai dati sulle emissioni pro-capite ridimensiona infatti completamente la responsabilità della Cina nella crisi climatica. Sotto questa nuova ottica, tutte le prime posizioni della classifica vengono così  occupate dai paesi del Golfo, i maggiori produttori mondiali di petrolio, e dai ben noti paradisi fiscali: un abitante medio in Qatar nel 2019 ha emesso circa 40 tonnellate di CO2, mentre la Cina va a trovarsi in  cinquantesima posizione, con sole 7,3 tonnellate di CO2 per abitante. 

 

I panni sporchi si lavano in casa… degli altri

Un’ulteriore strategia spesso adottata dai paesi del nord globale è quella di delocalizzare le produzioni più inquinanti nei paesi più poveri, in cui solitamente vige una regolamentazione ambientale (e sociale) molto meno restrittiva. In questo modo, poiché nei conteggi ufficiali le emissioni vengono solitamente imputate al luogo in cui sono prodotte (emissioni territoriali), i Paesi del nord globale scaricano le responsabilità per le proprie emissioni altrove e possono vantarsi di essere molto più virtuosi dal punto di vista ambientale di quanto non siano in realtà.

 

Peccato però che la maggior parte delle produzioni inquinanti esternalizzate vengano poi reimportate dagli stessi paesi sotto forma di beni di consumo. Per tenere conto di questa strategia dei Paesi occidentali, in un famoso articolo Peters e coautori trovarono un metodo per calcolare le emissioni contenute nel consumo (emissioni di consumo) – che vanno quindi imputate al luogo in cui un bene inquinante viene effettivamente consumato e non dove viene prodotto.

 

Come vediamo dai grafici sottostanti, la caratteristica comune dei paesi nelle prime 15 posizioni, sia in termini di emissioni territoriali che di consumo, è la loro elevata ricchezza. Questa è in alcuni casi dovuta alle esportazioni di petrolio o all’istituzione di paradisi fiscali, mentre in altri è legata al fatto che questi paesi si trovino tra le maggiori economie mondiali. In alcuni casi l’esternalizzazione dell’inquinamento e della relativa responsabilità climatica è particolarmente evidente.

Fonte: Peters, G. P., Minx, J. C., Weber, C. L., & Edenhofer, O. (2011). Growth in emission transfers via international trade from 1990 to 2008. Proceedings of the national academy of sciences, 108(21), 8903-8908.

 

Ad esempio, considerando le emissioni pro capite incorporate nel consumo, nel 2019 il Lussemburgo ha emesso più del doppio rispetto alle proprie emissioni territoriali per abitante, trasferendo in paesi terzi circa 20tCO2/persona. Secondo questo metodo di calcolo, quindi, le emissioni di molti paesi vengono ridimensionate: come è ragionevole pensare, per molti paesi del Golfo è evidente come una grande parte delle emissioni, principalmente legate alla produzione di petrolio, non sia effettivamente consumata in loco ma sia esportata per soddisfare le esigenze energetiche di molte altre nazioni. Ad esempio, se si considerano solo le emissioni effettivamente consumate in loco, il Qatar passa da più di 40 tCO2 per persona a 27 tCO2. Analogamente, il Bahrain passa da 20,9 tCO2 a 11,5 tCO2. L’unico paese del Golfo a fare eccezione sono gli Emirati Arabi Uniti, il cui consumo emette più CO2 di quella prodotta sul territorio nazionale. 

 

Fonte: Peters, G. P., Minx, J. C., Weber, C. L., & Edenhofer, O. (2011). Growth in emission transfers via international trade from 1990 to 2008. Proceedings of the national academy of sciences, 108(21), 8903-8908.

 

Il nostro budget è limitato

Per scongiurare il raggiungimento del punto di non ritorno, è fondamentale non superare il budget di carbonio globale di 350 ppm di CO2, il limite planetario considerato sicuro da alcuni autorevoli studi scientifici sui cosiddetti planetary boundaries. Tenendo conto di questo limite, in un articolo del 2020, Jason Hickel ha adottato una nuova metodologia per rendere conto della responsabilità del cambiamento climatico, quantificando il debito o il credito climatico di ciascun paese.

 

Nel fare ciò, Hickel considera le emissioni cumulate di CO2  che superano il budget di carbonio globale di 350 ppm per ogni paese, secondo il principio dell’uguaglianza delle emissioni pro capite e utilizzando il consumo come criterio di quantificazione delle emissioni (dal 1970 al 2015). Ciò che emerge da questa analisi è che la maggior parte dei paesi del mondo sono in credito climatico, mentre pochi paesi, tutti del Nord globale, sono in debito. In particolare, i soli Stati Uniti hanno un debito climatico del 40% nei confronti dei paesi del Sud globale, l’UE-28 del 29% e i paesi del G8  dell’85%. D’altra parte, la Cina, incriminata dagli USA e da altri paesi ricchi come la maggiore responsabile del cambiamento climatico, è in realtà in credito (almeno, fino al 2015) di 29 miliardi di tonnellate di CO2.

Fonte: Hickel, J. (2020). Quantifying national responsibility for climate breakdown: an equality-based attribution approach for carbon dioxide emissions in excess of the planetary boundary. The Lancet Planetary Health, 4(9), e399-e404.

 

Non siamo tutti uguali

Per chiudere il cerchio, occorre focalizzarsi ancora di più sulle responsabilità interne ai singoli paesi. Ci sentiamo ripetere continuamente che ognuno di noi può dare il proprio contributo per fermare il cambiamento climatico. Tuttavia, non tutti possiamo contribuire allo stesso modo perché siamo tutti responsabili, ma in modi molto diversi. Sono sempre di più, infatti, le evidenze scientifiche sul forte legame tra sostenibilità e ricchezza.

 

Come evidenziato nell’ultimo report dell’IPCC, la disuguaglianza economica (sia di reddito che di ricchezza) è il vero problema da affrontare per fermare la crisi climatica, poiché si traduce in disuguaglianza nelle emissioni. Il World Inequality Lab (WIL) ha recentemente fornito delle stime sulle emissioni per le diverse classi di reddito, evidenziando come il 10% più ricco della popolazione mondiale sia responsabile di quasi il 50% di tutte le emissioni, mentre il 50% più povero ne produce solo il 12% del totale.

 

Nel report del WIL si legge inoltre che un essere umano emette in media circa 6,6 tonnellate di CO2 in un anno. Come mostrato nel grafico sottostante, l’1% più ricco della popolazione mondiale emette circa 110 tonnellate di CO2 pro capite in un anno, mentre un individuo appartenente al 50% più povero,  con sole 1,6 tonnellate, si trova ben al di sotto della media. Eppure, neanche i ricchi sono tutti uguali: il 10% della popolazione più ricca in Nord America emette circa il doppio del 10% più ricco di tutte le altre regioni nel mondo.

 

Fonte: World Inequality Report 2022

 

Come abbiamo visto, dal punto di vista scientifico i progressi ottenuti nella comprensione delle cause del cambiamento climatico sono notevoli. L’ultimo report dell’IPCC segna un cambiamento radicale in tal senso e suggerisce la strada che i governi dovrebbero intraprendere in un futuro molto prossimo per raggiungere gli obiettivi climatici. Tuttavia, le diverse rappresentazioni delle emissioni che abbiamo visto in questo articolo non rappresentano mere differenze di calcolo ma sono intrise di un significato politico ben preciso. Rappresentare le emissioni in un modo o in un altro, infatti, comporta un cambiamento marcato anche nelle politiche adottate a livello nazionale e internazionale e scegliere l’approccio corretto può fare la differenza in termini di efficacia dell’intervento. 

 

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