Ripensare il paesaggio
Per rispondere alla crisi climatica abbiamo bisogno di nuove categorie estetiche?
di Viola Ducati
in copertina Thomas Hart Benton – Fishermen’s Camp, Buffalo River [1968]
Pale eoliche sì, pale eoliche no. Pannelli fotovoltaici non sui campi, sì sui tetti. Ma non nei centri abitati. La cronaca recente è scandita da scontri e polemiche sulla costruzione di nuovi impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili. A inizio dicembre 2022 la pubblicazione di Paesaggi rinnovabili, il documento sottoscritto da FAI, Legambiente e WWF Italia, ha ulteriormente esacerbato i toni del confronto.
Se, infatti, non stupisce l’apertura di Legambiente e WWF alla costruzione di impianti rinnovabili sul territorio, la presa di posizione del FAI, la più importante associazione nazionale per la tutela del paesaggio, a favore segna una svolta epocale. “Coniugare gli obiettivi della transizione energetica con la lungimiranza nella pianificazione paesaggistica e la qualità della progettazione è […] la sfida cruciale del prossimo futuro”, ha dichiarato il FAI, riconoscendo la necessità di mettere mano al paesaggio italiano per rispondere alle sfide poste dalla crisi climatica ed energetica. Le reazioni di larga parte del mondo ambientalista e delle associazioni per la tutela del paesaggio non si sono fatte attendere. Gli Amici della Terra hanno definito un “patto #ammazzapaesaggio” quello delle tre associazioni ambientaliste, che dimostrerebbero di “essere completamente fuori dalla realtà”.
Italia Nostra, la storica associazione per la salvaguardia dei beni culturali, artistici e naturali ha dichiarato di “sostenere l’indirizzo politico del ministro Gennaro Sangiuliano e del sottosegretario Vittorio Sgarbi” – che da tempo si oppone alla costruzione di parchi eolici sul territorio – “i quali cercano la strada per salvaguardare ciò che rimane del paesaggio italiano […] dopo la trasformazione industriale”. Transizione ecologica e tutela del paesaggio sono dunque inconciliabili?
L’impatto paesaggistico delle rinnovabili
Gli ambientalisti che temono lo sviluppo incontrollato di nuovi impianti rinnovabili hanno le loro buone ragioni. Per raggiungere gli obiettivi previsto dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC), infatti, sarà necessario installare 60 GW di nuova capacità rinnovabile entro il 2030, per raggiungere una potenza nominale installata pari a 60 GW da solare e 25 GW da eolico. Tenendo conto della bassa densità di potenza di queste tecnologie, pannelli solari e pale eoliche dovranno essere distribuiti su tetti, terreni agricoli, terreni liberi, aree verdi e siti di ogni dimensione, dal nord al sud della penisola.
Con buona probabilità il loro impatto su città e paesaggi rurali sarà comparabile a quello delle autostrade costruite dalla metà del Novecento. La produzione energetica, che con i combustibili fossili e gli impianti rinnovabili di prima generazione è stata a lungo confinata in pochi grandi impianti, spesso lontani dallo sguardo umano, è destinata a diventare sempre più vicina, più diffusa e più visibile. Così, alle proteste bollate come NIMBY (Not In My Back Yard, “non nel mio cortile”) si aggiungono le voci di autorevoli storici dell’arte e paesaggisti, preoccupati che la costruzione indiscriminata di impianti eolici e solari aggiunga ulteriori ferite al paesaggio italiano. La loro posizione è chiara: se la decarbonizzazione è necessaria per contrastare il cambiamento climatico e proteggere l’ambiente, la tutela dell’ambiente non può essere fatta a spese del paesaggio.
Ecco, dunque, il vero terreno di scontro: conta più l’ambiente, che richiede azioni urgenti di mitigazione e adattamento, o devono prevalere le esigenze del paesaggio, che va conservato e tutelato, limitando il più possibile gli interventi antropici ad alto impatto estetico? Per superare l’impasse è stata cambiata nientemeno che la Costituzione. La modifica dell’articolo 9, approvata dal Parlamento il 9 febbraio 2021, ha affiancato all’impegno a tutelare “il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” quello rivolto verso “l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”. Problema risolto? Non proprio.
La relazione tra ambiente e paesaggio resta problematica
Che cos’è il paesaggio? Che cos’è l’ambiente? L’enciclopedia Treccani definisce il primo come “parte di territorio che si abbraccia con lo sguardo da un punto determinato”. Il paesaggio è dunque un concetto estetico, che rimanda all’idea di panorama, di bellezza naturale e di valore storico e artistico. Ambiente, invece, è una nozione scientifica, che fa riferimento alle caratteristiche geologiche, chimiche e fisiche di un territorio.
Dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, con l’ascesa dei movimenti ambientalisti, il concetto di paesaggio è stato messo in discussione, in quanto considerato troppo connotato in senso estetico e troppo fragile per basare su di esso le strategie di conservazione. Il paesaggio “è stato considerato […] invecchiato rispetto ai concetti chiave dell’ecologia, inservibile ai fini della tutela e soprattutto chiaramente risolvibile nel termine più ‘scientifico’ di ambiente”, scrive il filosofo Paolo D’Angelo nella sua recente monografia sul tema (Il paesaggio, Roma-Bari, Laterza, 2021).
Insomma, nel dibattito recente l’ambiente ha preso il posto del paesaggio, accusato, come riporta D’Angelo, di “favorire il disimpegno e fornire un alibi a chi vuole perseverare nelle vecchie abitudini”, propagandando “una visione idilliaca, edulcorata della natura, che ignora o addirittura copre i pericolo ai quali essa è sottoposta”. Un caso su tutti: quando nel 1975 nacque il FAI, l’associazione privata per la tutela di ville, giardini e paesaggi, decise di denominarsi Fondo Ambiente Italiano. Il tempo del paesaggio è davvero finito? I recenti appelli in sua difesa sembrano smentire la tesi.
Verso una nuova estetica del paesaggio
Vale forse la tesi opposta: oggi è necessario ripensare il paesaggio, ponendolo al centro della discussione pubblica. Due considerazioni sono centrali per orientare questo processo.
La prima: la dimensione estetica insita nel concetto di paesaggio non è un limite ma una risorsa. Perché la percezione estetica ci accomuna tutti, in quanto modalità “di base” con la quale facciamo esperienza del mondo, e perché il nesso estetico si stabilisce con tutti i tipi di paesaggio, anche con quelli “brutti” e degradati, aprendo la strada al loro recupero e ripristino.
La seconda: il paesaggio è un concetto relazionale e comunitario. Affinché ci sia un paesaggio, infatti, devono esserci un osservatore e un territorio che proprio grazie allo sguardo del fruitore si sviluppa in quanto paesaggio. Anzi, sono necessari sguardi molteplici, perché il paesaggio esiste non per il singolo ma per la comunità che vive e agisce su quel territorio. La nozione di paesaggio permette così di andare oltre una comprensione dualistica del rapporto tra elemento naturale ed elemento artificiale: le opere, gli usi e le trasformazioni indotte dall’uomo concorrono a modellare il paesaggio e a definirne l’identità.
Se tutto questo è vero, allora il paesaggio è un concetto potente, dinamico e trasformativo. Un concetto indispensabile per pensare e guidare la transizione ecologica e le trasformazioni radicali che l’accompagnano. Alcuni esempi: includere nella progettazione la dimensione del paesaggio significa coinvolgere le comunità locali in uno sforzo collettivo di immaginazione. Mettere in discussione la nostra percezione del paesaggio significa ripensare le categorie estetiche alla luce del cambiamento climatico. Prendendo atto che accanto alla tradizionale estetica del bello ci serve un’estetica del brutto, e di tutte le sfumature intermedie. Educare al paesaggio significa iniziare a rimodulare la percezione alla luce della conoscenza della crisi ambientale e delle sfide climatiche ed energetiche che ci attendono: come diceva un vecchio slogan FAI del 1998, “si protegge ciò che si ama; si ama ciò che si conosce”. È tempo di pensare insieme paesaggio e ambiente.
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