white-sea-cloud

Il romanzo di fronte alle sfide dell’Antropocene

Il romanzo di fronte alle sfide dell’Antropocene

Come forma di conoscenza, il romanzo ha compreso poco, e nel migliore dei casi in ritardo, le rotture e gli stravolgimenti causati dai cambiamenti climatici. Spesso si dice che questo genere letterario sia ormai finito; forse le cose non stanno proprio così, ma le sfide che ha di fronte sono molte.

in copertina Ivon Hitchens – White Sea Cloud [1967]

di Sebastiano Santoro

Qualche anno fa, durante un festival editoriale, lo scrittore norvegese Karl Ove Knausgaard ha parlato di una particolare qualità della letteratura: le parole e le immagini evocate dagli scrittori spesso riescono a depositarsi nel nostro animo, sedimentare con calma, in silenzio, e poi inaspettatamente, anche a distanza di anni, le vediamo saltar fuori con la forza di un’epifania. 

 

Venticinque anni fa, a metà degli anni Novanta, Knausgaard ha letto un poema della poetessa Inger Christensen che si chiama Alfabeto; il poema è un elenco di cose che ci sono nel mondo e comincia così:

 

Ci sono gli albicocchi, ci sono gli albicocchi

 

Ci sono le betulle; e le bacche, le bacche

e c’è il bromo; e l’idrogeno, l’idrogeno

 

ci sono le cicale; la cicoria, il cromo,

e ci sono le clementine; ci sono le cicale,

le cicale, i cedri, i cipressi, il cervelletto

 

ci sono i daini; i desideri, i dadi,

ci sono i delinquenti; i daini, i daini;

il deserto, la diossina e i dì; i dì

ci sono; i dì, i decessi; e le descrizioni

ci sono; le descrizioni, i dì, i decessi

 

La prima volta che Knausgaard ha letto Alfabeto, ha pensato che fosse un poema bellissimo, ma lo ha fatto in maniera estemporanea, senza comprenderne bene i motivi. Poi, dopo venticinque anni, gli è ritornato alla mente, e solo in quel momento ha compreso che una delle ragioni della sua delizia estetica è la forma stessa del poema, che si muove intrecciando Cultura e Natura: Knausgaard si è accorto che tutti gli oggetti che vengono elencati non sono enumerati in maniera casuale, ma sono strutturati in ordine alfabetico e seguendo la cosiddetta sequenza di Fibonacci, una serie numerica in cui ciascun numero è il risultato della somma dei due precedenti, ovvero 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21 eccetera. 

 

Questa sequenza è presente in natura pressoché ovunque: nella riproduzione delle api, nel modo in cui gli steli si ramificano, nel numero di petali dei fiori, nell’ordinamento delle spirali esistenti nelle pigne, negli ananas e nei girasoli.

 

“Questa struttura latente, che è stata isolata dalla scienza e che la natura non conosce, ma che si limita semplicemente a seguire – ha raccontato lo scrittore norvegese – appartiene tanto al misticismo quanto alla matematica e, insieme alle parole isolate dal poema che evocano singoli oggetti e singoli fenomeni, ci rende il mondo al tempo stesso familiare e alieno, sensoriale e astratto, tangibile e intangibile.”

 

La separazione tra letteratura e natura

Non solo Christensen e Knausgaard, negli ultimi anni moltissimi autori hanno esplorato i luoghi di intersezione tra letteratura e natura. Probabilmente non è un caso se di recente le materie cosiddette umanistiche sono particolarmente attente ai fenomeni naturali. Non è un caso, non solo perché la crisi climatica sta irrevocabilmente colonizzando anche il nostro immaginario, ma anche perché per molto, forse troppo tempo i due campi – conoscenza della natura e cultura umanistica – sono stati tenuti rigorosamente separati. 

 

Lo scrittore indiano Amitav Ghosh, nel suo La grande cecità, ci dà un’idea di questa frattura. “Uno degli impulsi originari della modernità è il progetto di ‘dividere’, ovvero accentuare l’ipotetico abisso tra Natura e Cultura: si relega la prima al solo ambito scientifico e la si considera territorio proibito per la seconda”. In questo libro, che è un pilastro dell’ecocritica letteraria, le ragioni della separazione tra natura e letteratura (più precisamente, tra natura e romanzo realista) sono analizzate in relazione alle caratteristiche del mondo borghese, ambiente di sviluppo per eccellenza del genere romanzesco. 

 

La razionale prevedibilità che ha scandito i ritmi della società industriale, l’ossessione per l’individualità, e la tendenza a ragionare per discontinuità, suddividendo i fenomeni in questioni specifiche di portata sempre più ridotta, sono alcune delle posture mentali che, secondo Ghosh, non hanno permesso ai romanzieri di far proprie le regole che governano la vita di tutti gli elementi naturali, come l’imprevedibilità e l’interconnessione. Il risultato è che la natura è stata studiata solo attraverso le leggi generali delle discipline scientifiche in senso stretto. Non è un caso che il primo genere letterario che si sia occupato di ricongiungere questi due poli – la natura e la letteratura – e che è spesso visto con un certo distacco dalla critica letteraria, sia la fantascienza. 

 

Detto in altre parole, con questo pamphlet Ghosh accusa gli umanisti di essere stati ciechi di fronte ai cambiamenti provocati dall’emersione dell’Antropocene, una nuova era geologica in cui l’uomo è passato a essere un agente capace di modificare la struttura e la vita su questo pianeta. 

 

Ecco, appunto, Antropocene. Negli ultimi anni questa parola si è imposta sempre di più per definire l’epoca che stiamo vivendo. La paternità di questo neologismo è di un biologo, Eugene Stoermer, e la sua fama si deve invece a un chimico dell’atmosfera, il premio nobel Paul Crutzen. Come ha osservato la critica letteraria Carla Benedetti in La letteratura ci salverà dall’estinzione, durante secoli l’attività di definire e battezzare le epoche storiche è sempre stata di competenza degli umanisti (medioevo, rinascimento, romanticismo, moderno, postmoderno sono alcuni esempi); ma negli ultimi anni i nomi avanzati da critici letterari, filosofi, sociologi – nomi come modernità liquida, metamodernità, ipermodernità, neomodernità, eccetera – non solo non sembrano aver attecchito nell’uso comune, ma non rappresentano adeguatamente nemmeno le inquietudini e le rotture col passato che il concetto di Antropocene porta con sé. 

 

A ulteriore prova della cecità denunciata da Ghosh, anche nel compito di dare nome alle cose – compito che per secoli è stato proprio degli umanisti – questi hanno dovuto retrocedere a vantaggio di chi possiede una preparazione scientifica (che sono anche gli stessi che spesso sostengono fortemente i movimenti di attivismo climatico). Non a caso, l’ultimo esempio è la petizione della comunità scientifica affinché, in vista delle prossime elezioni, la crisi climatica venga posta in cima all’agenda politica dei partiti e del futuro governo. 

 

Ghiacciai che si fondono, inondazioni che provocano migliaia di morti, siccità prolungate, specie animali e vegetali che si estinguono, proprio mentre stiamo vivendo il più grande rischio mai affrontato dall’umanità, gran parte della cultura umanista sembra aver rimosso una tale enormità dal proprio campo visivo. Ma, come scrive Benedetti, “una cultura che rimuova dal proprio cuore una tale emergenza e le relative angosce è destinata a diventare una sorta di intrattenimento per morituri”.

Il romanzo di fronte alle sfide dell’Antropocene

I ritardi della letteratura nella comprensione di ciò che stiamo vivendo sembrano confermati anche dall’opinione di un’altra persona che della letteratura ha fatto la propria ragione di vita. Nel suo ultimo saggio Contro l’impegno, Walter Siti, uno dei più importanti scrittori e critici letterari che abbiamo in Italia, ha scritto che l’ecologia non sembra capace di generare romanzi “perché il nemico è troppo generico e perché una rivoluzione così totale non è facilmente traducibile in trame e personaggi”.

 

Preso atto di questa illustre bandiera bianca, sembrerebbe quindi che il romanzo, genere letterario per eccellenza degli ultimi due secoli, non riesca proprio a rappresentare la complessità della questione ecologica e climatica. Ecco perché, come scrive Siti, alcuni bravissimi narratori si sono affidati al pamphlet per trattare il tema ambientale (come è successo, ad esempio, con lo scrittore statunitense Jonathan Safran Foer). 

 

Si dice spesso, e da molto tempo, che il romanzo sia ormai finito. Numerosi critici e scrittori ne hanno celebrato la morte, perché, secondo loro, ha sfruttato tutte le sue possibilità, tutte le sue forme. Il romanzo è sorto con Cervantes e con la nascita dei tempi moderni, e con essi, e con la loro crisi, si è ormai esaurito.

 

Forse è vero, e in futuro si affermeranno nuovi modi ibridi di scrivere. Non è casuale, ha notato Ghosh, che negli ultimi anni l’immagine si sia insinuata nell’universo del romanzo e sia iniziata l’ascesa della graphic novel. Come non è casuale il successo di podcast, audiolibri e altre forme nuove che mescolano il suono con la parola scritta. Forse in futuro l’atto stesso di leggere subirà una mutazione, come è già avvenuto in passato, ma a mio parere, ovvero secondo l’opinione di chi è cresciuto con i Viaggi di Gulliver e quindi osserva il dibattito con un po’ di tristezza e di nostalgia, il romanzo non ha ancora esaurito ciò che aveva da dire. Il problema, però, è che forse è venuto meno uno dei suoi punti cardini: la capacità di mostrare ciò che non si conosce. 

 

Capiamoci meglio. A ragione, il famoso critico statunitense Harold Bloom sostiene che “un libro che non possiede splendore estetico, forza cognitiva, autentica originalità e soprattutto rilevanza umana non vale la pena leggerlo”. Infatti, durante quattro secoli, il romanzo è riuscito a illuminare numerosi segmenti dell’esistenza umana: grazie a Cervantes si è compreso qualcosa su che cos’è l’avventura; nelle opere di Balzac si è scoperto che l’uomo è radicato nella Storia e, allo stesso tempo, le dinamiche sociali sono entrate nella vita dei personaggi prima ancora della nascita della sociologia in senso stretto; con Dostoevskij si studia la psiche dell’uomo prima ancora delle teorie psicanalitiche di Freud (che era un fervente lettore dello scrittore russo, a cui ha dedicato un famoso saggio); l’inafferrabile attimo passato è sondato da Proust, l’inafferrabile attimo presente invece da Joyce; Kafka riesce a entrare nei meandri dell’angoscia e della colpa, rappresentando (senza volerlo) le trappole oppressive della burocrazia e dei totalitarismi, quando essi ancora non avevano preso forma. Grazie alla loro forza cognitiva – come la chiama Bloom – tutti questi autori hanno permesso un passo avanti all’umanità nell’attività (interminabile) della comprensione di sé e del mondo. 

 

Ma a che punto siamo oggi? Vediamo cosa dice lo scrittore Riccardo Capoferro per farci un’idea: “Lodiamo lo sguardo penetrante del romanziere, la sua capacità di spingersi nei più profondi meandri della psiche, il suo coraggio di fronte alla verità sconvolgente del male o all’ambiguità morale della nevrosi. Al tempo stesso, e con maggior enfasi che in passato, lodiamo la capacità del romanzo di sperimentare tutte le gamme dell’esperienza emotiva e così di intrattenerci in modo efficace. Elogiamo un libro perché nel giro di poche pagine ci ha fatto ridere e piangere, perché ci ha tolto il respiro, ci ha commosso ed esaltato, rapito e scosso”.

 

Oggi, scrive Capoferro, che “tutto può essere fotografato, filmato o raccontato – dagli stessi protagonisti – e, ovviamente, razionalizzato”; oggi, aggiungo io, che abbiamo un disperato bisogno di comprendere qual è il nostro reale posto su questo pianeta; sì, oggi, ciò che resta al romanzo non è che “il racconto dell’interiorità, che raramente, tuttavia, costituisce una scoperta”. Esaurita tutta la sua forza cognitiva, il romanzo realista “si traduce in una conferma del già noto che ci dà l’illusione di conoscere il mondo”. 

 

Dunque, se ha ragione Walter Siti quando dice che “la letteratura è un gioco di parole che per secoli è servito a portare in superficie il nascosto”, considerata la scarsa comprensione, o quantomeno tardiva, da parte dei romanzieri dell’enorme portata della crisi climatica ed ecologica attuali (ma a questo punto, forse, degli umanisti in senso lato), ciò che è venuta meno è proprio questa capacità del romanzo di svelare il nascosto, di comprendere le pieghe sottotraccia della metamorfosi a cui stiamo assistendo, che è chiamata Antropocene.

 

Da cosa possiamo partire

Questo, ovviamente, non significa che il romanzo avrebbe dovuto sostituirsi alla fisica, alla climatologia o alle altre scienze positive che per prime sono state capaci di avvisarci del rischio che stiamo correndo. Non è un compito che gli compete. “La sola ragion d’essere di un romanzo è scoprire quello che solo un romanzo può scoprire” ha scritto Milan Kundera in L’arte del romanzo. E quello che un romanzo può scoprire, per Kundera, è “una porzione di esistenza fino ad allora ignota”. 

 

Bene, in questa esplorazione esistenziale, come abbiamo già scritto su Duegradi, recentemente la climate-fiction sta offrendo alcune valide soluzioni. Ad esempio, uno dei capisaldi del genere, The overstory di Richard Powers (il cui titolo rimanda a una “storia ulteriore e più grande di tutte le altre”, e che in italiano è stato tradotto con un enfatico, ma forse un po’ fuorviante, “Il sussurro del mondo”), è un romanzo che si sviluppa usando i tempi pausati della natura e imitando la forma di un vegetale, in quanto è strutturato con capitoli che sono equiparati a radici, fusto e rami di un grande albero.

 

Ulteriori risposte a questa urgente richiesta di senso possono essere rintracciate anche in altri testi, in Italia o all’estero, contemporanei o meno. E ovviamente anche nei classici. Senza andare troppo indietro nel tempo, a metà Ottocento, nella nostra penisola (che ha sempre partorito illustri poeti più che romanzieri), nel poema La Ginestra Giacomo Leopardi denunciava, con occhi disincantati, che il non-umano (la rovina, la catastrofe) continua a dominare la Storia, nonostante le affermazioni di progresso dei suoi contemporanei.

 

La Ginestra potrebbe tranquillamente ascriversi a quella che il critico Niccolò Scaffai chiama letteratura ecologica, ovvero una modalità d’essere della letteratura votata alle tematiche ecologiche che, contrariamente al senso comune, non riguarda solo la scienza, ma l’esistenza stessa degli esseri umani. In sostanza, l’ecologia è usata da alcuni scrittori come una struttura di senso che può aiutarci a capire quanto la crisi ambientale ci riguardi e incida direttamente sulle nostre vite. Attualmente, inoltre, si assiste a una svolta reciproca, sostiene Scaffai, che vede l’utilizzo sempre maggiore di risorse letterarie anche da parte del discorso scientifico (come avviene, ad esempio, nei libri di David Quammen o di Michael Pollan). 

 

Infine, con l’umile convinzione di aver descritto un elenco parziale e per nulla esaustivo, potremmo azzardare un’altra suggestione, e lo facciamo partendo da una domanda: oggi come oggi, dove i cambiamenti climatici hanno evidenziato l’interconnessione di tutte le specie viventi, che senso ha l’esistenza umana se rimane chiusa nel proprio sé? Forse una delle sfide che si appresta ad affrontare in futuro il genere romanzesco è proprio uscire dalla limitazione del sé, da questa individualizzazione storicamente condizionata che ha caratterizzato il romanzo fin dagli albori della sua nascita.

 

Qualcuno potrebbe obiettare, forse a ragione, che i romanzieri non possono che attingere dalla propria esperienza. Come potrebbe, ad esempio, Il processo perdere il punto di vista di Josef K., in cambio, magari, di quello di un animale intrappolato in uno zoo? O come sarebbe Moby Dick se a parlare fosse la balena bianca e non il marinaio Ismaele? Si capisce che la questione è problematica. Come potremmo, ad esempio, scrivere la storia di una zecca, un essere vivente che, a differenza nostra, ha un mondo percettivo fatto essenzialmente di calore corporeo e odore di acido butirrico? O ancora, come potremmo tradurre in narrazione l’ecolocalizzazione di un pipistrello, o la visuale a infrarossi di un serpente?

 

Non è facile rispondere a questi quesiti. Citiamo però le parole di Italo Calvino, uno dei pochi autori italiani che nel secolo passato ha anticipato questi mutamenti prima ancora che essi fossero così evidenti. Nel suo testamento letterario, le Lezioni americane che Calvino avrebbe dovuto tenere all’Università di Harvard se un ictus non lo avesse stroncato una notte di settembre del 1985, lo scrittore afferma: “Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione”. 

 

Una delle imprese future della letteratura, e del romanzo in particolare, sarà allora riuscire ad accedere a quell’alterità impenetrabile che è il non-umano, cioè un animale, un batterio, una pianta, una nuvola; per adesso un terreno sconosciuto finanche alle scienze in senso stretto (che ancora si arrovellano sul concetto di mente e di umwelt). E accedervi con gli strumenti tipici di questa disciplina: l’immaginazione e la parola scritta. Bisognerà far vagare la nostra mente in territori immaginifici, in altrove non ancora esplorati (e forse proprio per questo ancora più suggestivi), e per farlo – e qui rubo di nuovo le parole di Capoferri – “rispolverare le risorse del linguaggio, sfruttare a fondo le sue potenzialità, strappandolo alla tirannia di una sintassi anchilosata, di un lessico impoverito, di stereotipi durevoli ma logori. […] Sfruttare a fondo le potenzialità del linguaggio narrativo, portandolo a un’osmosi con quello poetico o con molti altri registri e discorsi, è un buon modo per sintonizzarci sulle sfumature delle cose, per rinnovare il legame tra le parole e gli oggetti”. 

 

D’altronde non stiamo dicendo nulla di nuovo, o di rivoluzionario. Sempre Calvino al termine delle sue immense lezioni scrisse:

 

Qualcuno potrebbe obiettare che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s’allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazione? […] Ma forse la risposta che mi sta più a cuore dare è un’altra: magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…”. 

 

Per concludere, la domanda da porsi è se abbiamo veramente a cuore la letteratura e il romanzo, e se ci teniamo che essi sopravvivano alle metamorfosi dell’Antropocene. Insomma, se vogliamo continuare a giocare a questo meraviglioso gioco fatto semplicemente con le parole, un gioco così bello, che ci ha incantato per così tanto tempo, non ci resta allora che trovare il modo di dare parola, o qualcosa che vi si avvicini molto, anche al vento, ai fiumi, o alle rocce, ovvero a chi e a cosa linguaggio umano non ha

 

Segui Duegradi su InstagramFacebookTelegramLinkedin e Twitter

Add a Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *