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Non esiste ricetta universale per un sistema alimentare sostenibile

Non esiste ricetta universale per un sistema alimentare sostenibile

Il nostro modo di produrre e consumare cibo contribuisce fino a un terzo delle emissioni annue globali di gas serra.

di Verdiana Fronza

in copertina “Pieter Aertsen – The Fat Kitchen, An Allegory”

Cibo e cambiamento climatico

Cambiamento climatico e cibo sono temi legati a doppio filo. L’aumento delle temperature, delle emissioni di gas serra e la maggior frequenza di eventi climatici estremi mettono sotto stress la produzione di cibo e quindi la sua disponibilità sulle nostre tavole. Al contempo, gli impatti del sistema alimentare sulle emissioni di gas serra sono ben noti e sono stati ampiamente discussi anche su Duegradi. Vale la pena ricordare un dato fra tutti: secondo l’IPCC, il sistema alimentare contribuisce alle emissioni annue globali di gas serra per un intervallo che va dal 21 al 37%.

 

In risposta all’enorme impatto ambientale, sociale, economico e culturale del cibo, il concetto di sistema alimentare sostenibile ha guadagnato sempre più popolarità sia a livello accademico che nei processi decisionali internazionali ed europei, tanto che nel 2021 si è tenuto il Summit delle Nazioni Unite sui Sistemi Alimentari per facilitare la transizione verso una produzione e un consumo più sostenibili. La domanda sorge quindi spontanea: che cosa significa davvero “sistema alimentare sostenibile”?

 

Per sistema alimentare si intendono tutti gli attori e le attività coinvolte nella produzione, trasformazione, distribuzione, consumo e smaltimento di prodotti alimentari da agricoltura, silvicoltura e pesca. In questo contesto, la sostenibilità sta nel contribuire oggi alla sicurezza alimentare e alla nutrizione di tutti e tutte senza intaccare le basi economiche, sociali, culturali e ambientali che garantiranno gli stessi standard anche alle generazioni future.

 

Il sistema alimentare si trova però di fronte a tre divari interconnessi: quello del 56% tra il cibo prodotto nel 2010 e quello che sarà necessario nel 2050 per nutrire una popolazione globale sempre in crescita; i  600 milioni di espansione dei terreni agricoli che serviranno di conseguenza e le 11 gigatonnellate di gas serra che si prevede saranno emesse  in più rispetto ai livelli richiesti dall’Accordo di Parigi. 

 

Secondo il World Resources Institute, questi divari sono da colmare con un menù di cinque portate che include cambiamenti nella domanda e consumo di cibo; intensificazione della produttività agricola senza occupare ulteriori terreni; ripristino degli ecosistemi; miglioramento della gestione di acquacoltura e pesca; e riduzione delle emissioni tramite tecnologie e metodi innovativi. E, soprattutto, uno sforzo collettivo da parte di tutti gli attori in gioco.
 

Oltre l’etichetta: il caso del biologico

La transizione verso diete più sostenibili gioca quindi un ruolo importante nel diminuire gli impatti climatici del sistema alimentare: non si può rimanere sotto la soglia dei due gradi senza un cambiamento nelle nostre abitudini alimentari. A livello individuale, l’adozione di una dieta più sostenibile è quindi una delle azioni a più alto impatto climatico. Ma se da un lato l’attenzione a considerazioni di tipo ambientale e climatico rispetto al cibo che mangiamo sembra crescere, dall’altro c’è ancora molta strada da fare.

 

Secondo uno studio dell’organizzazione europea dei consumatori, più dei due terzi dei consumatori e delle consumatrici italiane intervistate afferma che le proprie scelte alimentari sono condizionate da considerazioni di sostenibilità. D’altro canto, quando si tratta di azioni concrete, l’ultimo Eurobarometro Europeo sulla sicurezza alimentare afferma che solo il 16% dei consumatori e delle consumatrici menzionano clima e ambiente come uno dei tre maggiori fattori di influenza nell’acquisto di generi alimentari – nel 2019 erano il 19%. 

 

E anche una volta presa la decisione di adottare regimi alimentari più sostenibili quindi si rischia di scontrarsi con un altro muro: quello della complessità del sistema alimentare, che si traduce in molte informazioni, molte variabili e poche certezze. Il sistema alimentare si sviluppa dalla “fattoria alla forchetta”  ma anche dall’acqua alla forchetta, e alla sua sostenibilità contribuiscono produttore e consumatore, sistemi economici ed ecologici, dalla scala globale a quella locale. Non esiste perciò un’unica ricetta per diminuire gli impatti climatici di quello che mangiamo e, paradossalmente, più si scava nella moltitudine di studi che indagano la sostenibilità del sistema alimentare, più il quadro si complica.

 

Prendiamo per esempio una tendenza in aumento: il consumo di prodotti da agricoltura biologica, popolari fra i consumatori e negli scaffali dei supermercati, e promossi anche a livello legislativo – in Italia è dal 2015 che le mense devono servire almeno una percentuale di cibo biologico. Sempre nel nostro Paese, nel 2019 il 15% dei terreni agricoli era coltivato a biologico con una crescita del 79% rispetto al 2009. Ma basta affidarsi a un’etichetta “bio” per assicurarsi di fare una scelta amica del clima? La realtà è più sfaccettata e richiede a chi mangia di fare un passo indietro per guardare a come il cibo viene prodotto.

 

L’agricoltura biologica non usa fattori sintetici come fertilizzanti e pesticidi chimici, ma approcci naturali che favoriscono, fra gli altri, la biodiversità in campo e un ridotto consumo di energia. Evidenze varie suggeriscono però che anche il biologico ha i suoi limiti. Proprio per l’assenza di input sintetici, la resa per unità di suolo coltivato a biologico scende di una percentuale che va dal 5 al 40% rispetto all’agricoltura convenzionale. Di conseguenza i metodi biologici implicano un uso di suolo superiore. Inoltre, l’uso di letame come fertilizzante organico genera emissioni di ossido di diazoto, un gas serra 310 volte più impattante della CO2. In termini di biodiversità e salute ecosistemica, i nutrienti rilasciati dal letame possono contribuire all’eutrofizzazione degli ambienti acquatici, e anche i benefici in termini di una maggiore ricchezza di specie non sono sempre così chiari.

 

Il dibattito fra convenzionale e biologico rientra nella più ampia discussione sui i pro e contro fra sistemi agricoli intensivi ed estensivi. Il quesito ha riempito pagine di studio, e la conclusione delle ricerche più recenti indica principalmente che non esiste una risposta netta: le incertezze sono troppe e il contesto gioca un ruolo chiave. Per esempio, in termini di rendimento del raccolto, il biologico sembra funzionare meglio con frutta e legumi rispetto che con i cereali. Un approccio alla produzione al consumo di cibo che si vuole sistemico e sostenibile deve quindi prestare molta attenzione al contesto in cui si produce e scegliere tecniche adatte al luogo e al raccolto.
 

Importare materie prime, esportare emissioni

Visto quanto discusso finora, l’obiettivo della strategia UE “Farm-to-Fork” di avere un 25% dei terreni europei coltivati a biologico entro il 2030 può suscitare alcune perpressità. L’idea di produrre utilizzando metodi rispettosi della natura è nobile, ma se gli obiettivi europei si limitano a manifestare una volontà di aumentare la produzione biologica e diminuire l’uso di input sintetici senza una visione sistemica di trasformazione nel modo di produrre e consumare, come si recupera il cibo “perso”? Forse spostando la produzione all’estero, tramite accordi dove la sostenibilità non rientra fra le portate principali. Esternalizzando la produzione insostenibile si esternalizza anche la conversione del suolo, la deforestazione e quindi le emissioni di gas serra.  

 

Secondo il report del WWF “L’Europa mangia il mondo”, l’importazione di materie prime legate alla deforestazione, come olio di palma e soia – che viene usata non solo come alimento ma anche come foraggio, ha portato alla perdita di 3.5 milioni di ettari di foreste e a emissioni stimate del 1,807 milioni di tonnellate nel periodo che va dal 2005 al 2017. Per capirci, si parla di un’area grande più dell’Olanda e di emissioni pari al 40% delle emissioni annue stimate a livello europeo. Quindi anche se a casa le foreste crescono, si distruggono altrove.

 

A questo proposito, a settembre il Parlamento Europeo ha discusso la proposta per un Regolamento volto a ridurre l’impatto climatico e in termini di perdita di biodiversità della produzione e del consumo Europeo di prodotti come manzo, cacao, caffè, olio di palma, soia. La nuova legislazione richiederebbe controlli da parte delle aziende per verificare che quanto venduto sui mercati dell’Unione non provenga da terreni deforestati o degradati. Tramite questa verifica (“due diligence”) si promuoverebbero quindi prodotti “liberi da deforestazione”, che non contirbuiscono alla degradazione forestale, con l’obiettivo di una riduzione delle emissioni di 32 milioni di tonnellate all’anno.
 

È impossibile far sedere la sostenibilità a tavola?

Questi esempi tracciano i contorni di realtà complessa che sfocia nell’assenza di indicazioni chiare e precise per chi cerca di mangiare più sostenibile. Siamo in un sistema in cui i trade-off sembrano inevitabili e, come spesso accade per le questioni climatiche, ciò che emerge con chiarezza è che non esiste una formula magica quando si parla di sostenibilità alimentare. La spinosità della questione può causare disorientamento e un vero e proprio affaticamento anche in consumatori e consumatrici che vorrebbero fare scelte positive per il clima. 

 

La prima azione positiva per non mangiarsi il mondo è forse proprio accettare che non basta affidarsi a soluzioni semplici: c’è bisogno di attenzione e ricerca attiva da parte di tutti e tutte noi. Questo però non significa che non esistano scelte con valore aggiunto. Per esempio, si può iniziare dal prestare più attenzione a cosa si mangia. Qui la ricerca sembra avere risposte più chiare.

 

Secondo i dati rielaborati dal sito OurWorldinData e tratti da uno studio pubblicato su Science nel 2018, le emissioni di gas serra legate al sistema alimentare dipendono principalmente dalla conversione del suolo e dai processi produttivi a livello di fattoria (input, foraggio, etc.). I due fattori contribuiscono a più dell’80% delle emissioni per la maggior parte delle categorie di prodotti analizzate. Questo è vero per sia per le singole categorie di prodotto analizzate che a livello di regime alimentare. Quindi scegliere prodotti associati a minore conversione del suolo e che richiedono meno input in “fattoria” può avere un impatto positivo sostanziale. 

 

Infatti, che sia in termini di peso, contenuto proteico o calorie, l’impronta ecologica dei prodotti di origine vegetale è (significativamente) più bassa di quelli di origine animale, anche tenendo conto delle variazioni nei modi di produrre. Infatti, le produzioni di alimenti come legumi, tofu e noci a più alte emissioni hanno comunque impatti minori rispetto alle “migliori” produzioni di manzo, vitello, maiale e formaggio. Perciò, nonostante stia emergendo la volontà di mangiare carne “migliore”, locale e da piccoli produttori, mangiare meno carne in generale sembra rimanere la scelta a maggior beneficio climatico.

 

L’impatto sostanziale della transizione verso regimi alimentari basati su proteine vegetali può essere quindi un’iniziale bussola per orientarci nel labirinto della sostenibilità alimentare. Per esempio, una piccola riduzione nel consumo di prodotti di origine animale, per esempio sostituendo il 10% dell’apporto calorico giornaliero dato dal manzo con noci, frutta e verdura, legumi, e alcuni tipi di pesce può portare a una diminuzione del 33% dell’impronta di carbonio della propria dieta. Inoltre, almeno per i Paesi ad alto reddito, si stima che l’adozione di diete vegetali potrebbe diminuire le emissioni dell’agricolo del 62%.

 

Da questo buon punto di partenza si può poi prendere in considerazione il contesto, variabile più difficile da gestire, cercando di consumare cibo prodotto con metodi con una gestione della terra e delle acque più circolari, integrati ed efficienti nell’uso delle limitate risorse naturali. Da quanto abbiamo visto, l’integrazione olistica di modi di produrre diversificati, nuove tecnologie e metodi tradizionali può essere una soluzione per  avvicinarsi a una produzione che ci possa nutrire adeguatamente assicurando il sostentamento del produttore e minori effetti avversi su clima e ambiente. Ricordando sempre che, banalmente, uno dei cibi più sostenibili è quello non viene buttato. Secondo le stime del WWF fino al 40% del cibo prodotto a livello globale non viene consumato, con un contributo fra l’8 e il 10% delle emissioni globali di gas serra. Un’azione “sicura” per aumentare la sostenibilità climatica della nostra dieta è quindi quella di ridurre gli sprechi.

 

Una nota finale che non può mancare, avendo sottolineato l’importanza del contesto, sta nel riconoscere che al momento della stesura di questo articolo ci troviamo in una situazione di crisi energetica, inflazione e crescente costo della vita, incluso quello dei prodotti alimentari. Perciò, nonostante tutto, anche quest’anno il fattore che più influenza le scelte alimentari in UE è il costo del cibo. Purtroppo, con costo si intende ancora il prezzo di mercato, mentre i costi per la salute e l’ambiente sono tuttora esternalizzati. Un incentivo verso la sostenibilità alimentare potrebbe quindi essere economico. Internalizzare gli impatti avversi della produzione di cibo nei prezzi di mercato può garantire l’accesso a cibo a basso impatto ambientale e sano a un numero maggiore di persone, rendendo così anche la convenienza un’alleata del clima.

 

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