Di cosa ti vesti?
Il settore tessile e la moda ai tempi della sostenibilità.
di Cecilia Consalvo
illustrazione di Davide Comai
Abbiamo mai pensato che i fenomeni di sovrapproduzione e di concentrazione di gas climalteranti in atmosfera siano strettamente collegati? Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, l’industria della moda produce dall’8% al 10% di tutte le emissioni globali di CO2, sarebbe a dire tra i i 4 e 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica ogni anno. Inoltre, come evidenzia un rapporto del National Institute of Standards and Technology (NIST), i prodotti chimici usati nella filiera della moda costituiscono la seconda causa globale di inquinamento delle acque (dopo l’agricoltura). Ogni anno 190.000 tonnellate di microplastiche (principalmente poliestere) finisce nei mari e negli oceani.
Il discorso non cambia se consideriamo i parametri relativi al consumo di materie prime. In Europa, il consumo di vestiti, scarpe e tessuti utilizza ogni anno circa 675 milioni di tonnellate di materie prime (raw materials), una media che per ogni cittadino ammonta a circa 1.3 tonnellate. Di tutto ciò, il 73% va a finire in discariche o in inceneritori.
Ma vi è di più. I prodotti tessili, insieme alla biancheria da casa, ai tappeti e alle moquette, sono la seconda causa di utilizzo massivo dei terreni. E anche il consumo d’acqua è ingente: il settore consuma ogni anno 53.000 milioni di metri cubi d’acqua. Ad esempio, per produrre un singolo paio di jeans denim sono necessari 10.000 litri d’acqua.
Perché è importante per l’industria della moda rendere trasparente il proprio processo produttivo?
Al momento della scrittura di questo articolo, si commemorano i dieci anni dal crollo della palazzina Rana Plaza a Dacca, la capitale del Bangladesh. Lifegate lo riporta come il più grande disastro della storia moderna per l’industria della moda, e lo marca come giorno in cui “tutti capimmo che si può morire di moda”. Quel giorno crollò una palazzina del Rana Plaza, zona del Bangladesh dove tutt’oggi si concentrano numerose fabbriche di abbigliamento. Sotto le macerie sono rimaste 1.138 persone senza vita, oltre 2.600 feriti e molti superstiti sono rimasti invalidi a vita.
Al grande dramma umanitario si affianca poi quello etico. Sebbene nessun marchio di moda si è fatto avanti ammettendo di rifornirsi dalle fabbriche coinvolte nel crollo, giornalisti e attivisti scavando sotto le macerie ritrovarono etichette di vestiti e fogli con ordini appartenenti a una serie di brand occidentali, quali Benetton, Auchan, Gap, H&M, Mango e, Zara. Rendere trasparente la propria catena di produzione diventa quindi fondamentale per la salvaguardia dei diritti sociali e di requisiti ambientali a cui l’azienda deve rispondere.
Fortunatamente, a livello globale sono molte le iniziative, i progetti, e i movimenti che agiscono al fine di invertire l’attuale tendenza nell’industria del tessile.
In Europa, oltre ai tanti strumenti volti a educare e indirizzare il corrente modello economico verso un’economia circolare, la Commissione Europea si è fatta promotrice di varie iniziative nel campo del tessile, come per esempio l’Action Plan for Fashion and High-end Industries, ovvero un piano di investimenti a supporto di supporto a piccole e medie imprese del settore tessile, per finanziare progetti legati allo sviluppo di tecniche innovative di ottimizzazione e ricerca nel campo dell’utilizzo dei materiali.
Sono numerosissime, poi, anche le iniziative private. Il movimento indipendente di Fashion Revolution, per esempio, ha condotto con successo internazionale campagne come quella del #whomademyclothes (chi ha prodotto i miei vestiti). Nel 2022 il movimento ha anche creato il Fashion Transparency Index, uno studio delle 250 aziende di moda più influenti, in cui queste vengono giudicate e valutate per la trasparenza in merito alle proprie politiche in materia di diritti umani e ambientali, ma anche in merito all’impatto e alle pratiche adottate nella catena di produzione. Da questo studio si evince che circa il 52% dei marchi analizzati hanno deciso di non rendere pubblici dati e informazioni riguardanti la propria catena produttiva. Il processo verso una totale trasparenza delle operazioni, degli impatti e delle azioni adottate dai marchi analizzati sembra ancora un’utopia: quest’anno il 24% dei marchi hanno deciso di rendere pubblici i loro dati, cioè un punto percentuale in più rispetto all’anno scorso.
In Italia, Deborah Lucchetti è coordinatrice di “Campagna Abiti Puliti” la sezione italiana di un network globale chiamato Clean Clothes, che ad oggi conta 235 organizzazioni operanti in 45 paesi, promuovendo i diritti dei lavoratori nella moda. Abiti Puliti e Fashion Revolution promuovono insieme, la campagna “Good Clothes, fair pay” facendosi portavoce di tutela salariale e normativa dei lavoratori in campo tessile e moda. Non solo, in Italia è partito il “Movimento per la moda responsabile” che, come cita il Corriere della Sera, è un movimento “che unisce chi vuole rendere tutta la catena produttiva più sostenibile, mettendo insieme brand, aziende, organizzazioni e cooperative e che ha come fine quello di creare un’industria della moda sempre più attenta al proprio impatto, accessibile e riconosciuta.”
Cosa ci resta da fare?
Dovendo comunque continuare a vestirci, cosa ci resta da fare dopo aver acquisito la consapevolezza su ciò che indossiamo?
Possiamo agire su tre livelli. Il primo è partire dalla nostra mentalità: allungare la vita di ciò che possediamo è una delle più potenti soluzioni che possiamo attuare già da subito. Regaliamo, ripariamo, compriamo capi utilizzabili in occasioni diverse e che durino nel tempo. Rompiamo lo stereotipo che impedisce di utilizzare lo stesso abito in eventi diversi. Rompiamo anche il concetto di inutilizzabile finché non abbiamo prima provato a riparare. Possiamo anche esercitarci alla creatività e magari ricolorare un capo, magari con colori naturali dal caffè, dal cavolo viola e tantissimi altri.
Alleniamoci quindi a valorizzare ciò che possediamo, piuttosto che sostituirlo immediatamente. Alleniamoci infine all’abbandono dell’idea del mono-uso inteso come mono-funzione. Il segreto del futuro nella moda è anche questo: la fluidità e l’assenza di regole rispetto l’utilizzo di un capo. Le nuove collezioni sono pensate per essere fluidamente indossate, che sia un corpo femminile o maschile, che sia un contesto elegante o più informale. Tutto è concesso, ed è l’apoteosi della creatività.
Il secondo livello: informarsi. Oltre agli innumerevoli documentari e studi sulla situazione attuale che sono stati citati anche in questo articolo, l’informazione passa attraverso le piccole cose. Imparare a leggere le etichette dei capi può allungare la vita a ciò che indossi. Informarsi su cosa i simboli delle etichette significano è essenziale per poter trattare adeguatamente il tessuto e poter valorizzare le sue caratteristiche per il più lungo tempo possibile. Infatti prolungare la vita di un prodotto significa anche “diluire” il suo impatto ambientale nel tempo, per quanto possibile.
Il terzo livello: scegliere come comprare. Investiamo sulla qualità. La scelta di marchi che aderiscono a un modello di economia circolare, con produzioni di qualità e rispetto di valori etici, ambientali e sociali, è sicuramente una scelta che noi consumatori possiamo adottare. Così facendo, si supportano realtà che investono in un progetto ed una visione della moda che vuole rompere l’attuale schema obsoleto per promuovere uno stile di vita diverso e praticabile. Secondo il Circular Fashion Report 2020, il mercato della moda circolare ha un valore potenziale di 5mila miliardi di dollari, il 63% in più dell’industria della moda tradizionale. Una faccia della moda sostenibile è quella basata su capi realizzati da materie riciclate e innovative (e performanti) piuttosto che da materie prime vergini.
I costi di queste produzioni però possono essere più elevati e dunque scoraggiare una parte di clientela. In questo caso, una valida alternativa è fornita dal vintage e dalla “seconda mano”. Anche qui, c’è da esercitarci ad abbandonare l’idea che associa l’usato, il vintage e la seconda mano al concetto di fuori moda, vecchio o poco “cool”. Nella quasi totalità dei negozi di seconda mano, o comunque nelle grandi catene (famosa in Italia è Humana Store) i capi sono sterilizzati e sono applicate rigide regole per l’igienizzazione. Inoltre, sempre più negozi di abiti di seconda mano danno spazio a giovani designer che ricondizionano e rigenerano capi creando pezzi unici da materiale che sarebbe stato altrimenti buttato.
L’acquisto del vintage e della seconda mano ha poi avuto un grande successo attraverso le conosciute piattaforme online come Depop, Vinted, Vinokilo. Tra le meno conosciute, di italiane troviamo Svuotaly, Vintag, Lampoo, Mercatino e estere Imperfaite Paris, Sillabe Collection, The Level Store, The RealReal. Importante citare anche che esistono delle app che aiutano chi acquista alla scelta del capo o del brand più etico a livello sociale ed ambientale come Good On You o Renoon entrambe impegnate su aziende e grandi marchi di moda.
Vintage e seconda mano non sono due concetti uguali. Infatti, anche se entrambi sono articoli usati già, per vintage si categorizzano i capi che hanno più di vent’anni di vita. L’abbigliamento di seconda mano riguarda quei capi che possono avere anche solo un anno di vita ma, per qualche ragione, sono stati venduti o scartati dopo essere stati indossati poche volte.
Qualsiasi opzione si scelga, abbiamo la possibilità di rompere gli schemi. L’allungamento della vita dei nostri vestiti, la riparazione, il ri-utilizzo, la seconda mano ci insegnano il valore del tempo, e come decidiamo di spenderlo. Ci forzano a rallentare i nostri ritmi, a rivalorizzare ciò che possediamo già ci forzano ad essere creativi, de-costruire e re-inventare le funzionalità originarie di qualcosa.
Insomma, cosa decidiamo di indossare ha un grande potere politico e sociale. Possiamo cambiare lo stato attuale del mondo del tessile e della moda passando da meri consumatori di beni a coscienti utilizzatori e ri-valorizzatori.
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