La crisi ecologica, oltre le emissioni di gas serra
Non possiamo contrastare la crisi climatica senza tener conto di una più ampia crisi ecologica, nella quale rientra anche una drastica perdita della biodiversità.
La lotta ai cambiamenti climatici viene spesso – e giustamente – legata al concetto di abbattimento delle emissioni gas serra. Ma sarebbe riduttivo fermarsi qui: non possiamo pensare di risolvere la crisi climatica senza tenere conto di una più ampia crisi ecologica, che si estende dai cambiamenti climatici alla qualità dell’aria e dell’acqua, alla ricchezza del suolo e alla biodiversità.
Quando parliamo di crisi ecologica ci riferiamo quindi, tra le altre cose, al fenomeno della perdita della biodiversità, di cui proprio i cambiamenti climatici sono tra i principali responsabili. La specie umana ha già causato la scomparsa dell’83% dei mammiferi selvatici e della metà di tutta la vegetazione. Non si tratta di salvare l’uccellino dal becco viola di un’isola tropicale: siamo nel bel mezzo della sesta estinzione di massa. Ignorare questo aspetto, pensando solo ai gas serra, sarebbe come non vedere un elefante dentro ad una stanza.
La natura è complessa, ma è necessario comprenderla
Proviamo a capire perché pensare alla natura in modo olistico – quindi tenendo conto di aria, acqua, suolo e biodiversità – è tanto complesso quanto necessario. La natura (e la biodiversità di cui è composta) è capace di fornire i cosiddetti servizi “ecosistemici”, che rendono possibile l’esistenza della nostra specie: cibo, materie prime, depurazione dell’acqua, aria pulita, e perfino la regolazione del sistema climatico (a sottolineare nuovamente l’interdipendenza tra clima e biodiversità).
Questi servizi sono alla base di tutte le nostre attività economiche: ogni azienda, ogni servizio che la società ci offre è funzione del flusso dei servizi offerti dalla natura. Persino il più avanzato strumento tecnologico ha bisogno di materie prime per essere prodotto. Secondo le stime del Forum Economico Mondiale, 44 trilioni di dollari (più della metà del PIL totale del mondo) dipendono, in misura più o meno diretta, dalla natura e dai suoi servizi. Il che significa che la perdita di biodiversità può mettere a rischio più della metà del PIL mondiale, e in particolare il settore delle costruzioni, dell’agricoltura e dei prodotti alimentari.
Se continuassimo a degradare la natura, dilapidando la sua biodiversità e quindi riducendo i servizi che ci fornisce, verrebbero presto a galla diversi problemi: posto che non potranno essere universali ma più esclusivi, chi avrà il diritto di usare i pochi servizi ecosistemici rimasti? Come decideremo di distribuirli? Per quanto tempo il loro flusso durerà in un mondo che vive ben al di sopra delle proprie capacità? Le risposte non ci sono, e non possiamo permetterci di arrivare a quel punto: sbatteremmo addosso a un disastro geopolitico, oltre che ambientale.
Per fare in modo che l’impatto non sia troppo doloroso, dovremmo cominciare ad affrontare questo tipo di problemi complessi considerando la natura nella sua completezza. Trascurare questo approccio olistico, limitandoci solo alle emissioni di gas serra, significherebbe correre il rischio di commettere gravi errori, o di risolvere alcuni problemi causandone altri.
Facciamo un esempio: quello della biomassa per la produzione di energia (legno, biocarburanti come l’etanolo etc.). Da un punto di vista puramente climatico, produrre biomassa è “neutrale”, cioè a zero emissioni nette di gas serra. Eppure, per liberare le aree di coltivazione di biomassa si incentiva la deforestazione; allo stesso tempo, l’utilizzo di acqua aumenta, come quello di pesticidi.
Con questo esempio non si arriva necessariamente a concludere che tale pratica vada sempre evitata, quanto piuttosto che servono gli strumenti necessari a capire quando è conveniente deforestare e quando no, quando è il caso di diminuire i servizi che un ecosistema ci offre e quando no. Ciò si può fare solamente adottando una visione di ampio respiro, che non consideri solo le emissioni di gas serra (e quindi una sola delle variabili della crisi ecologica), ma che includa anche l’utilizzo dell’acqua e del suolo, la preservazione di biodiversità e quella dei servizi ecosistemici.
Un primo passo: unire le negoziazioni internazionali di clima e biodiversità
Vi è dunque, per questo motivo, un estremo bisogno di comprendere più a fondo la complessa relazione tra natura in generale e cambiamento climatico in particolare, non solo a livello scientifico. Tutte le implicazioni, conseguenze, intrecci, andrebbero considerate anche a livello politico, per evitare di far rimbalzare il problema dalle emissioni di CO2 all’inquinamento di acqua o suolo, dalle emissioni di metano al collasso di alcuni ecosistemi.
A livello politico ci può sembrare di risolvere dei problemi riducendo solo le emissioni, ma la terra ci risponde che ne stiamo ignorando altri, se non persino trasferendoli altrove. Il collasso di un ecosistema può tranquillamente avvenire in un mondo senza crisi climatica.
Da dove iniziare? Un primo passo verso un approccio più olistico potrebbe essere un’iniziativa politica multilaterale (cioè a livello delle Nazioni Unite): le prossime negoziazioni su natura e biodiversità, che avranno luogo in Cina. Erano previste per Ottobre 2020, ma a causa del Covid-19 sono state rimandate di almeno un anno.
In occasione di questa conferenza verrà adottato un “Quadro globale post-2020”, ovvero un piano di riferimento per la definizione di obiettivi concreti sulla biodiversità a livello nazionale, regionale e globale che consentano, nel 2050, di “vivere in armonia con la natura”. Come nel caso delle negoziazioni climatiche, gli stati membri della Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD, il cui corrispettivo “climatico” è l’UNFCCC) devono sottoporre delle strategie nazionali per la biodiversità (le cosiddette “NBSAP”, il cui corrispettivo climatico sono le “Nationally determined contributions”, o NDC).
È importante che le strategie climatiche diventino più coerenti con quelle per la biodiversità, proprio al fine di non trasferire i problemi dal mondo UNFCCC al mondo CBD e viceversa. Più in generale, è importante che le sinergie politiche tra CBD e UNFCCC vengano esplorate in modo più sistematico. In questo modo, ad esempio, la gestione della biomassa (cui abbiamo fatto riferimento sopra) potrebbe diventare molto più efficiente a livello sia regionale che globale. Non è possibile che le strategie nazionali per la biodiversità e per il clima, due documenti diversi, vengano preparate senza tener conto l’una dell’altra.
E come accaduto durante le negoziazioni climatiche, in cui si è stabilito che il target da non superare sono i 2°C, è bene che anche il “Quadro globale post 2020” riesca a definire dei target chiari e ben definiti.
In sintesi, come possiamo arrivare al 2050 “vivendo in armonia con la natura”? Un buon inizio sarebbe cominciare a capire quali target seguire, e che quest’ultimi siano applicabili non solo a livello globale ma anche nazionale, municipale, e aziendale; in questo modo tutti gli agenti potranno far parte di questa transizione. Inoltre, i target ecologici e climatici dovranno essere coerenti tra loro. L’uomo ha creato sia crisi ecologica che crisi climatica, ed ha il dovere, attraverso la sua azione politica, di cercare di risolverle entrambe con legislazioni coraggiose e non in contrasto tra loro.
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