Quando l’abit-udine fa il monaco
Il fast fashion è veloce anche a finire nelle discariche: il 60% dei vestiti viene buttato entro un anno dalla produzione.
Un pianeta consumato dal consumismo
Siamo la specie che ha imparato a fare dell’autodifesa un’arma di attacco. Non ci piace essere nel torto, né tantomeno venir accusati dei nostri errori. Lo impariamo fin da piccoli ad incolpare il fratello o il cugino eventuale: a quale bambino piace venire rimproverato?
Poi cresciamo, diventiamo adulti e le colpe diventano ben più gravi, come ad esempio l’essere complici della possibile estinzione della nostra stessa specie e della moría del Pianeta che dovremmo abitare da ospiti. È proprio allora che il nostro subconscio processa le informazioni disponibili sulle cause antropiche della crisi più ardente dei nostri giorni; un po’ a piacere, un po’ selettivamente. Se tra le cause vi è quindi l’emissione di gas serra e i dati sui grandi emettitori ci saltano all’occhio, allora tenteremo di allontanare la nostra responsabilità sul problema, colpevolizzando il settore energetico e industriale.
In questo metodo per misurare la responsabilità climatica manca qualcosa di cruciale: le persone. Nel mondo globalizzato e consumistico di questo secolo, le persone sono consumatori e le industrie rispondono semplicemente alla crudele legge della domanda e offerta. Ciò significa che ad una produzione, sovra-produzione o spreco dipende una previsione di domanda dei consumatori per prodotti tra cui , elettrodomestici, cibo, vestiti, oggetti. Roba.
Se l’impronta che stiamo lasciando sul pianeta fosse misurata dal punto di vista della domanda dei consumatori, spunterebbe un nuovo nemico da accusare oltre alle industrie: noi stessi. È facile biasimare le aziende, il governo, il sistema ma la realtà si nasconde dietro a quel 60-80% dell’impatto ambientale individuale che deriva dai consumi delle famiglie di cibo, vestiti, trasporto, ed elettrodomestici (in termini di gas effetto serra emessi). Cambiare quanto e come consumiamo con la consapevolezza delle conseguenze avrebbe un effetto drastico sulla nostra impronta ambientale.
Sebbene l’impatto climatico del fenomeno consumistico vada differenziato geograficamente da paese a paese, per il 2030 ci si aspetta che 5.3 miliardi di persone apparterranno alla cosiddetta “classe di consumatori” (oggi oltre i 3 miliardi), caratterizzata da una dieta di cibi altamente processati, abitazioni sempre più grandi, automobili più numerose, alto livello di debito finanziario e dallo stile di vita legato all’accumulo di beni non essenziali. Roba.
Tra i molteplici fattori determinanti, quali rivoluzione industriale e tecnologica, anche la globalizzazione ha contribuito a trasformare in necessità beni un tempo considerati di lusso. Ciò di cui siamo convinti di non poter fare a meno oggi, fino a pochi anni fa era fuori dalla nostra portata. La notizia è che vivevamo bene comunque, anzi in alcuni casi, meglio. Il consumismo spesso si affianca a livelli più elevati di debito individuale per sostenere lo stile di vita consumistico, al conseguente bisogno di lavorare di più, e quindi al minor tempo da dedicare alle relazioni sociali con famiglia, amici e comunità locali.
Ce lo raccontava Verga nella novella La Roba a fine ‘800: il vecchio Mazzaró, vicino alla morte, uccide tutti gli animali dei suoi campi all’inno “Roba mia, vientene con me!”. Un consumo forsennato di “roba” è dannoso per noi, ma non solo. L’impatto ambientale deriva dal modo di produrre tutti quei beni che il mondo consumistico richiede, al ritmo con cui i consumatori li esigono. L’unica condizione che conta è la velocità: vogliamo tutto, subito. Siamo diventati pigri ed impazienti, a danno del pianeta.
Fast fashion is not for free
In netto parallelismo con il mondo dei fast-food, l’esempio lampante dei consumi nocivi moderni si annida nei nostri armadi. I maglioni ai ferri, le scarpe suolate dal calzolaio e le gonne cucite a mano hanno ceduto il passo al fenomeno del fast fashion, definito come il settore di abbigliamento economico prodotto rapidamente dai rivenditori del mercato di massa in risposta alle ultime tendenze. A cadenza quasi settimanale, gli scaffali dei negozi e le vetrine si rinnovano, seguendo una moda inarrestabile e cercando di stare al passo con la competizione della porta accanto. Per non parlare della velocità della compravendita di vestiti online (e-commerce).
Si stima, infatti, che ogni hanno si producano 20 nuovi capi d’abbigliamento per persona nel mondo e che rispetto a vent’anni fa ne compriamo circa il 60% in più. I costi privati connessi al settore sono aumentati più lentamente rispetto al relativo costo degli altri beni di consumo, mentre lo sviluppo tecnologico-industriale ha permesso di tagliare anche sui costi di produzione, facendo in modo che tutti potessero permettersi di acquistare più vestiti, fatti peggio. Ogni capo viene utilizzato un numero esiguo di volte prima di venir buttato, spingendo la creazione di nuovi. Peccato che in questo contesto non ci rendiamo conto del disastro che stiamo combinando soltanto perché nel nostro sistema di produzione non vengono inseriti i costi ambientali, che sono enormi e che sono alla base della nostra sopravvivenza su questa terra; quando li inseriremo nei sistemi di produzione di abbigliamento e non solo?
Due fattori che alimentano il fenomeno fast fashion sono l’andamento demografico della “classe di consumatori” citata poco fa (la classe media che si allarga) e l’effetto culturale dei social network, che fomentano la necessità di indossare capi all’ultima moda, possibilmente sempre nuovi e diversi.
Il clima che non va di moda
Ma qual è l’impatto del fast fashion sul clima? Circa il 5% delle emissioni totali globali deriva dall’industria della moda. La produzione tessile la fa da padrona tra i settori più inquinanti, producendo l’equivalente di 1.2 miliardi di tonnellate di CO2e all’anno. Inoltre, il 60% dei tessuti sono usati per i vestiti, in gran maggioranza prodotti in Cina e in Bangladesh, paesi le cui industrie godono di regolamentazioni ambientali più lasche rispetto all’Europa.
Inoltre, sebbene anche il cotone abbia bisogno di moltissima acqua per coltivarlo e trattarlo, l’industria del fast fashion si caratterizza per l’uso di materiali a basso costo, a scarso tasso di riutilizzo e ad alto impatto inquinante: le fibre sintetiche, come ad esempio il poliestere. L’abbigliamento “fast” è anche veloce a finire nelle discariche, con circa il 60% dei vestiti buttati entro un anno dalla produzione. Cosa significa? Equivale a circa un rimorchio di spazzatura al secondo, mentre meno dell’1% viene riciclato nello stesso settore e circa il 13% in settori industriali diversi. Quindi l’86% finisce in discarica, abusando del nostro idiota sistema di economia lineare.
All’interno del mondo della moda esistono iniziative orientate a ridurne l’impatto climatico: come ad esempio il progetto del British Fashion Council Fashion Switch to Green, il piano di Patagonia per il riciclo del poliestere e la tendenza verso un ritorno ad una moda lenta e sostenibile, fondata sulla qualità e la lunghezza di vita dei prodotti. Ciononostante è essenziale che a queste iniziative dall’alto si accompagni un cambio nel comportamento dei consumatori dal basso. Ancora una volta, le scelte personali che ogni giorno siamo tenuti a prendere hanno un ruolo protagonista nella mitigazione delle conseguenze antropiche sulla crisi climatica.
Nella ricerca di uno stile di vita piú sostenibile, spesso siamo convinti di poter solo cercare di viaggiare meno in aereo o rivoluzionare drasticamente la nostra dieta, mentre partire da aggiustamenti, e in alcuni casi stravolgimenti, delle nostre abitudini viene sottovalutato. Al contrario, proprio ripensare le abitudini consumistiche che abbiamo reso la norma aiuterebbe a cambiare un sistema di credenze e valori alla base della cultura fast che tanto danno arreca a noi e al nostro Pianeta.
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